Coriolano – Atto V

(“Coriolanus” – 1607 – 1608)

Introduzione – Riassunto
Atto I
Atto II
Atto III
Atto IV
Atto V

Introduzione al teatro di Shakespeare
Elenco opere teatrali

Coriolano - Atto V

ATTO QUINTO – SCENA PRIMA

Entrano Menenio, Cominio, i due tribuni Sicinio e Bruto, e altri

MENENIO

No, non ci vado. Avete sentito che ha detto

il suo ex-comandante, legato a lui

di affetto particolarissimo.

Me, mi chiamava padre, ma che vuol dire?

Andateci voi, voi che l’avete bandito,

buttatevi in ginocchio a un miglio

dalla sua tenda, e apritevi la strada,

così a ginocchioni, verso la sua clemenza.

No, se si è dimostrato freddo a sentire

Cominio, io non mi muovo da casa.

COMINIO

Pareva che non mi conoscesse.

MENENIO

Capite, eh?

COMINIO

Però, una volta, mi ha chiamato per nome.

Io insistevo sull’antica amicizia,

sul sangue versato assieme. Ma a chiamarlo “Coriolano”

non rispondeva, ripudiava ogni nome.

Come se fosse un niente, un anonimo

finché non si fosse forgiato da sé un nome

nel fuoco dell’incendio di Roma.

MENENIO

Ecco, appunto!

Avete fatto un capolavoro. Una coppia

di tribuni che riesce a distruggere Roma

per aver carbone a buon prezzo.

Che bell’epitaffio!

COMINIO

Gli ricordai

che il perdono è regale quand’è meno atteso.

Replicò che era solo la richiesta sfacciata

d’uno Stato, a uno che aveva punito.

MENENIO

Ben detto. Poteva dire di meno?

COMINIO

Provai a risvegliare il suo attaccamento

per gli amici più stretti. La risposta fu

che non poteva fermarsi a spigolare

in un mucchio di pula infetta e putrida.

Disse che era pazzia, per uno o due granellini,

non appiccare il fuoco, e star lì ad annusare

quella peste.

MENENIO

Uno o due granelli!

Io son uno di quelli. Sua madre,

sua moglie, suo figlio, quest’uomo

coraggioso, anche lui – siamo i granelli.

Voi siete la pula infetta e il vostro fetore

sale oltre la luna. Dobbiamo bruciare per voi.

SICINIO

Abbi pazienza, andiamo. Se rifiuti il tuo aiuto

ora che serve come mai, almeno

non ci rinfacciare la disgrazia. Ma

certo, se volessi difendere la tua terra,

la tua abile lingua potrebbe fermare

il nostro concittadino, meglio dell’esercito

che si potrà improvvisare.

MENENIO

No, non voglio immischiarmi.

SICINIO

Ti prego, vai da lui.

MENENIO

A che farci?

BRUTO

Prova soltanto ciò che può fare il tuo amore

per Marzio, a favore di Roma.

MENENIO

Bene, metti che Marzio

mi rispedisca indietro, come fece con lui,

senza ascoltarmi. Cosa ne verrebbe?

Se ritornassi soltanto come un antico deluso,

ferito dalla sua indifferenza? Se andasse così?

SICINIO

Allora la tua buona volontà avrà da Roma

gratitudine commisurata alle tue intenzioni.

MENENIO

Va bene, proverò.

Credo che mi ascolterà. Però, brontolare

e mordersi le labbra, col buon Cominio,

questo mi scoraggia assai. Non è stato preso

al momento giusto. Non aveva mangiato.

Quando le vene son vuote il sangue è freddo,

e allora facciamo il broncio al mattino, allora

siamo incapaci di donare, di perdonare.

Ma quando abbiamo infarcito i nostri tubi

e canali del sangue col vino e il mangiare,

l’animo è più cedevole che in un digiuno da preti.

Perciò aspetterò che per dieta

si apra alla mia richiesta, e allora

gli darò sotto.

BRUTO

Tu sai la strada giusta verso la sua gentilezza,

e non ti puoi smarrire.

MENENIO

Per l’anima mia,

ci provo, vada come vuole. Lo saprò presto

se ci sono riuscito. Esce

COMINIO

Non l’ascolterà, è sicuro.

SICINIO

No?

COMINIO

Vi dico, siede nell’oro, l’occhio

rosso quasi a bruciare Roma, e la sua

offesa è il carceriere della sua pietà.

Mi sono inginocchiamo dinanzi a lui.

In un sussurro disse, “Alzati”, e mi congedò

così, con la sua mano muta.

Ciò che è disposto a fare, me lo mandò dietro

scatto, e ciò che non vuole fare, legato

com’è da un giuramento a rispettare

quel che gli hanno imposto: sicché

ogni speranza è vana,

a meno che la sua nobile madre, e sua moglie,

come sento dire, vogliano implorarlo

ad avere pietà per la patria. Quindi

muoviamoci, e sollecitiamole con preghiere giuste. Escono

ATTO QUINTO – SCENA SECONDA

Entra Menenio e avanza verso le sentinelle

I SENTINELLA

Fermo. Da dove vieni?

II SENTINELLA

Fermati. Indietro.

MENENIO

Fate guardia a dovere, bravi. Ma,

col vostro pennesso, sono un funzionario di stato,

e vengo per parlare con Coriolano.

I SENTINELLA

Da dove?

MENENIO

Da Roma.

I SENTINELLA

Non puoi passare, devi tornare indietro.

Il generale non riceve più nessuno da lì.

II SENTINELLA

Vedrai la tua Roma fasciata di fuoco, prima

di parlare a Coriolano.

MENENIO

Miei buoni amici,

se avete sentito il generale parlare

di Roma e degli amici che ha lì, scommetto

mille contro uno, il mio nome

vi è arrivato all’orecchio: Menenio.

I SENTINELLA

Può darsi. Torna indietro. Il tuo nome

qui non vale niente.

MENENIO

T’assicuro, amico,

il tuo generale mi vuol bene molto. Sono stato

il registro delle sue gesta, in cui il mondo

ha letto della sua fama ineguagliata, e

forse resa più ampia. Ho sempre esaltato gli amici

– e lui è fi primo – con tutta l’ampiezza

che la verità permetteva senza scaderne.

Anzi, a volte, come una boccia su un terreno

subdolo, ho capitombolato oltre il segno,

e lodandolo ho quasi autenticato il falso.

Perciò, amico, devi farmi passare.

I SENTINELLA

Senti, anche se hai detto tante menzogne a suo favore per quante parole hai speso a favor tuo, di qui non passi. Neanche se fregare fosse una virtù, come restare vergini. Perciò, marcia indietro.

MENENIO

Per favore, amico mio, ricorda che mi chiamo Menenio, sempre dalla parte del tuo generale.

II SENTINELLA

Senti, anche se hai fregato con lui, com’hai detto tu stesso, io sono uno che sta sotto lui per dire il vero, e ti dico che non passi. Perciò, sgombra.

MENENIO

Dimmi un po’, lo sai se ha già mangiato? Gli voglio parlare solo dopo il pasto.

I SENTINELLA

Tu sei romano, non è vero?

MENENIO

Sicuro, come il generale.

I SENTINELLA

Allora dovresti odiare Roma, come lui. Avete cacciato via il vostro difensore, e in un accesso di pazzia plebea avete ceduto al nemico il vostro scudo. Puoi credere davvero di poter fermare la sua vendetta con facili lagne di vecchie, palme vergini di ragazze, o con l’intrufolarsi paralitico d’un vecchio rimbambito come te? Credi di poter spegnere quel fuoco che presto brucerà la tua città con un fiato fiacco come il tuo? Ti sbagli, e perciò fila a Roma a fare i preparativi per tirare le cuoia. Siete fregati, il capo ha giurato di non darvi né tregua né perdono.

MENENIO

Senti un po’, se il tuo capitano sapesse che sono qui mi tratterebbe con rispetto.

I SENTINELLA

Ma va’, il capitano non sa chi sei.

MENENIO

Il tuo generale, voglio dire.

I SENTINELLA

Il mio generale? Non gliene frega niente di te. Vattene, ripeto, sparisci, sennò ti spillo quel mezzo litro di sangue che hai. Sloggia e ringrazia gli dei se lo conservi sloggia!

MENENIO

Amico, amico, un momento…

Entra Coriolano con Aufidio

CORIOLANO

Che succede qui?

MENENIO

Adesso, compare, te lo presento io un piccolo rapporto, adesso vedrai se sono rispettato o no. Adesso vedrai se un asino all’erta mi può proibire di parlare col figlio mio Coriolano. Giudica tu il trattamento che mi fa. Se non sei già destinato alla forca, o a qualche altra morte più lunga come spettacolo e più crudele come dolore, stai bene a guardare e svieni per quel che t’arriva addosso. (A Coriolano) Gli dei gloriosi seggano ora per ora in consesso per favorire la tua prosperità e non ti amino meno del tuo vecchio padre Menenio! Figlio mio, figlio mio, stai preparando il fuoco per noi. Guarda qui, ecco l’acqua per spegnerlo. Han faticato a convincermi a venire da te. Ma nessuno tranne me, dicevano, poteva farti cambiare idea, e allora i sospiri m’hanno spinto fuori dalle porte, ed io ti scongiuro di perdonare Roma e i tuoi compatrioti imploranti. Gli dei buoni plachino la tua collera, e i suoi residui li facciano ricadere su questo mascalzone qui – questo qui, che, bloccato nella zucca, mi voleva impedire di vederti.

CORIOLANO

Via!

MENENIO

Come? Via?

CORIOLANO

Moglie, madre, figlio, non li conosco.

Ciò che faccio è al servizio d’altri.

Mia è solo la vendetta, la pietà

è nel petto dei Volsci. C’è stata

amicizia tra noi, ma la dimenticanza

ingrata l’avvelena, e la pietà

non ricorda più quant’era profonda.

Perciò vattene. Questi orecchi

resistono alle vostre preghiere

più che le vostre porte alla mia forza.

Ma una volta ti amavo, e per questo

tieni; l’ho scritta per te (gli dà una lettera)

e l’avrei mandata. Neanche una parola in più

starò a sentire, Menenio. Quest’uomo, Aufidio,

mi fu caro assai a Roma. Eppure, vedi.

AUFIDIO

Sei un uomo costante. Escono

Restano Menenio e la sentinella

I SENTINELLA

Allora, di’ un po’, il tuo nome è Menenio?

II SENTINELLA

Caspita, ha un potere magico. La via di casa la sai.

I SENTINELLA

Hai sentito cotne ci ha strigliati per aver trattenuto la tua altezza?

II SENTINELLA

Dimmi, ho davvero ragione di svenire?

MENENIO

Me ne frego del mondo e del vostro generale. Quanto a roba come voi, per me quasi non ci siete, tanto poco vi considero. Chi vuol crepare di sua mano non teme la morte da un altro. Il vostro capo faccia quanto di peggio può fare. E voi, restate come siete, a lungo, e il vostro squallore aumenti con l’età! Vi dico quello che m’è stato detto, via!

Esce

I SENTINELLA

È un tipo in gamba, non c’è che dire.

II SENTINELLA

Ma più in gamba è il capo. È la roccia, la quercia che il vento non smuove. Escono

ATTO QUINTO – SCENA TERZA

Entrano Coriolano, Aufidio e altri. Si siedono

CORIOLANO

Domani accamperemo l’esercito

davanti alle mura di Roma.

Tu, mio collega in questa campagna,

devi riferire ai signori dei Volsci,

con quanta lealtà ho condotto

quest’azione.

AUFIDIO

Hai avuto di mira

solo i loro fini. Ti sei turato gli orecchi

alle invocazioni di Roma, non hai permesso

un bisbiglio a quattr’occhi, mai, neanche

con quegli amici che si credevano

sicuri di te.

CORIOLANO

Quest’ultimo, il vecchio

che ho rimandato a Roma col cuore a pezzi,

mi amava più d’un padre, anzi ero un dio

per lui. Mandarlo qui è stata

la loro ultima risorsa. Per il suo affetto

antico, pur mostrandomi aspro, ho offerto

ancora una volta le prime condizioni

che già avevano rifiutate, e che

ora non possono più accettare, e solo

per essere gentile con lui, che pensava

di poter fare di più. Ho ceduto appena un poco.

D’ora in poi non udrò più suppliche

né ambascerie, né dallo stato né da amici.

(Grida all’interno) Ah! Chi grida?

(a parte) Sarò tentato a rompere la promessa

nel punto stesso che la faccio? No.

Entrano Virgilia, Volumnia, Valeria e il piccolo Marzio col seguito

Mia moglie viene per prima, poi la matrice

venerata da cui prese forma

questo torso, e porta per mano

il nipote del suo sangue. Sentimenti, via!

Vincoli e diritti di natura, spezzatevi!

Sia virtù la durezza. Quell’inchino,

perché? Quegli occhi di colomba

che farebbero spergiuri gli dei?

Io cedo, non sono di terra più forte

degli altri. Mia madre s’inginocchia,

come un Olimpo che si curvi a implorare

una tana di talpa, e, il mio ragazzo

ha un’aria di supplice che la grande Natura

mi grida, “Non respingere”. I Volsci

passino l’aratro su Roma, e con l’erpice

rompano l’Italia! Non sarò

una bestia schiava dell’istinto, resisterò

come se fossi un uomo che ha fatto se stesso

e non ha parenti.

VIRGILIA

Mio signore e marito!

CORIOLANO

Questi occhi non sono quelli che avevo a Roma.

VIRGILIA

Te lo fa credere il dolore che ci mostra

così mutate.

CORIOLANO (a parte)

Ora come un cattivo attore

ho dimenticato la parte, e m’imbroglio,

e mi brucio.

(Si alza e va verso di lei)

Carne mia

migliore, perdona la mia crudeltà,

però ora non dirmi “Perdona i Romani”.

Oh, un bacio lungo come l’esilio,

dolce come la vendetta”. Ora

per la regina gelosa del cielo

il tuo bacio, cara, l’ho portato via

da te, e le mie labbra fedeli

l’hanno tenuto vergine da allora sempre.

Dèi, io dico preghiere, e lascio

senza saluto la più nobile delle madri.

Entra nella terra, ginocchio,

s’inginocchia

lasciavi un calco della mia dedizione

più profondo di quello dei figli

comuni.

VOLUMNIA

Alzati e sii benedetto!

Coriolano si alza

Mentre io su un cuscino non più morbido della pietra

m’inginocchio davanti a te, e provo

contro ogni decoro, che finora s’è inteso male

il rispetto tra figli e genitori.

S’inginocchia

CORIOLANO

Che fai?

Tu in terra? Davanti al figlio punito?

La solleva

Allora i ciottoli sulla spiaggia affamata

volino a punzecchiare le stelle. Allora

i venti ribelli scaglino i cedri superbi

contro il sole, assassinando l’impossibile,

per fare di ciò che non può essere

una cosa da niente.

VOLUMNIA

Sei il mio guerriero;

io ho dato mano a farti. Riconosci

questa donna?

CORIOLANO

Nobile sorella di Publicola,

luna di Roma, casta come il ghiacciolo

che il gelo aggruma da neve purissima

e appende al tempio di Diana – cara Valeria!

VOLUMNIA (indicando il piccolo Marzio)

Questo è un povero compendio di te,

che quando il tempo l’avrà interpretato

potrà essere tutto te stesso.

CORIOLANO

Il dio dei soldati,

al sommo Giove piacendo, informi

i tuoi pensieri di nobiltà, che tu possa

mostrarti invulnerabile al disonore,

e alzarti in mezzo alle guerre

come un gran promontorio che regge le bufere

e salva chi ti vede.

VOLUMNIA

Giù, in ginocchio.

CORIOLANO

Il mio bravo ragazzo!

VOLUMNIA

Lui con noi,

tua moglie, questa dama e io stessa

siamo qui a pregarti.

CORIOLANO

Ti supplico, zitta!

O, se chiedi, ricorda prima questo:

la cosa che ho giurato di non concedere

non pensate che ve la rifiuti. Non dirmi

di sciogliere l’esercito, o patteggiare di nuovo

coi meccanici di Roma. Non dirmi

che in ciò ti sembro snaturato. Non volere

smorzare la rabbia e la vendetta

coi tuoi freddi ragionamenti.

VOLUMNIA

Oh basta, basta!

L’hai detto, non concederai niente –

perché non abbiamo altro da chiedere

da quello che già rifiuti. E pure

chiederemo, così se la richiesta va a vuoto,

la colpa ricade sulla tua durezza.

Perciò ascolta.

CORIOLANO

Aufidio, e voi Volsci, ascoltate:

perché non udremo nulla da Roma

in privato. Cos’hai da chiedere?

VOLUMNIA

Restassimo mute e senza parola, queste vesti

e questi corpi direbbero quale vita

abbiamo fatto dopo il tuo esilio.

Pensaci, siamo venute qui

le più sventurate delle donne.

Perché la tua vista, che dovrebbe

riempirci gli occhi di gioia,

e far danzare i cuori di felicità,

li forza a piangere e tremare di paura e dolore,

mostrando alla madre, alla moglie, al figlio,

il figlio e il marito e il padre che strappa

i visceri alla propria terra. E a noi povere

la tua inimicizia è più mortale.

Tu c’impedisci di pregare gli dei,

conforto di tutti, e non nostro. Perché

come possiamo, ahimè, come possiamo pregare

per la patria, com’è nostro dovere,

e simultaneamente per la tua vittoria

com’è nostro dovere? Ahinoi, o dobbiamo

perdere la patria, nostra cara nutrice,

o te, nostro conforto nella patria.

Andiamo incontro a una sciagura certa,

anche se potessimo decidere chi vince.

O tu dovrai essere spinto in catene

per le nostre vie come un traditore,

o pesterai trionfante le rovine della patria

e avrai la palma per aver versato

da prode il sangue di moglie e figlio.

Quanto a me, figlio mio,

io non intendo vedere come la fortuna

farà finire questa guerra. Se non potrò

convincerti a fare nobile grazia alle due parti

piuttosto che spegneme una, non appena

muovi all’assalto del tuo paese non potrai

– credimi, non lo potrai – che pestare coi piedi

il ventre ài tua madre che ti portò

al mondo.

VIRGILIA

Sì, e il mio ventre, che ti partorì

questo ragazzo, per far vivere

il tuo nome nel tempo.

IL RAGAZZO

Me non mi pesta certo!

lo me ne scappo, fìnché son grande, ma poi

mi batto.

CORIOLANO

Per non intenerirsi come le donne

non bisogna vedere volti di bimbi o donne.

Sono stato seduto troppo.

Si alza

VOLUMNIA

No, non andartene così.

Se la nostra richiesta mirasse a salvare i Romani,

e quindi a distruggere i Volsci che tu servi,

potresti respingerci come veleni del tuo onore.

No, la nostra richiesta è di riconciliarli.

Che i Volsci possano dire, “abbiamo mostrato

clemenza”, i Romani, “l’abbiamo ricevuta”, e ciascuno

ti acclami, da ogni parte, e gridi, “benedetto

per aver fatto questa pace”! Tu sai,

mio grande figlio, che l’esito

della guerra è incerto. Ma questo

è certo: se conquisti Roma,

il beneficio che ne raccogli è un nome

inseguito da una muta di maledizioni

ogni volta che lo si dica, e di esso

le cronache scaveranno: “Quest’uomo

ebbe nobiltà, ma la sua ultima impresa

la spazzò via tutta, egli distrusse la patria,

e il suo nome resta esecrabile

per le età future”. Parlami, figlio.

Toccare hai voluto la quintessenza

dell’onore, imitare gli dei graziosi,

che col tuono làcerano le guance

ampie dell’aria, ma

caricano il lampo d’una potenza

che schianti solo una quercia.

Perché non parli? Credi sia degno

d’un animo nobile ricordare

le offese per sempre? Figlia,

parlagli tu. Del tuo pianto

non si cura. Parlagli tu, ragazzo.

Forse un bambino lo commuoverà

più dei nostri ragionamenti. Non c’è

uomo al mondo più obbligato a sua madre,

eppure mi lascia qui cianciare

come una alla gogna. Nella tua vita

non hai mostrato mai gentilezza

a tua madre, a lei che, povera chioccia,

non volle una seconda covata, e che

starnazzava se andavi alla guerra,

e se ne tornavi salvo, pieno d’onori.

Di’ che la mia richiesta è ingiusta

e cacciami via. Ma se non lo è,

non sei onesto, e gli dei ti faranno pagare

l’obbedienza dovuta a una madre e che neghi.

Mi volta le spalle. A terra, donne!

Svergognamolo con le ginocchia.

Al suo soprannome Coriolano s’addice

più la superbia che la pietà

per le nostre preghiere. Giù! Sia finita.

Le tre donne e il ragazzo s’inginocchiano

È l’ultima preghiera. Ora torneremo a Roma

per morire tra i nostri. No, guardaci!

Questo ragazzo che non sa dire ciò che vuole

ma s’inginocchia e tende le mani come noi

perora la nostra richiesta con più forza

che tu non abbia nel rifiutarla. Andiamo.

Si alzano

Costui ha per madre una volsca, sua moglie

è a Corioli, e il figlio

gli somiglia per caso. Di’ almeno, andate via.

Starò zitta finché la città sarà in fiamme,

e poi dirò poche parole.

CORIOLANO La prende per mano, in silenzio

O madre, madre!

Che cosa hai fatto? Guarda, i cieli si aprono,

gli dei guardano quaggiù, e ridono

di questa scena innaturale. O madre,

madre! Ah! Hai vinto una felice vittoria

per Roma. Ma per tuo figlio –

credilo, ah credilo – su lui hai prevalso

con suo rischio gravissimo, se non

mortale. Ma che venga.

Aufidio, non posso più fare una guerra leale,

ma forgerò una pace conveniente. Dimmi,

buon Aufidio, fossi stato al mio posto,

avresti meno ascoltato una madre? O avresti

concesso di meno, Aufidio?

AUFIDIO

Il fatto mi ha commosso.

CORIOLANO

L’avrei giurato!

E sai, non è facile far sudare

pietà ai miei occhi. Ma amico mio,

consigliami, quale pace vuoi fare. Per me,

non vado a Roma, tomo con te, e ti prego,

sostienimi in questo. O madre! Moglie!

AUFIDIO (a parte)

Sono contento che tu abbia azzuffato

dentro di te pietà e onore. Su questo

ricostruirò la mia fortuna.

CORIOLANO (alle donne)

Ma sì, subito.

Intanto beviamo assieme. Riporterete

qualcosa di più certo delle parole,

che noi firmeremo, e con uguali

condizioni. Su, entrate. Voi, signore,

meritate un tempio. Tutte le spade

d’Italia, tutti i suoi eserciti assieme

non potevano fare questa pace. Escono

ATTO QUINTO – SCENA QUARTA

Entrano Menenio e Sicinio

MENENIO

Lo vedi quel cantone del Campidoglio, quella pietra angolare?

SICINIO

Beh, e allora?

MENENIO

Se ti riesce di spostarlo col mignolo, c’è qualche speranza che le donne di Roma, con sua madre alla testa, gli facciano cambiare idea. Io dico che non c’è speranza, le nostre gole son condannate, aspettano solo il coltello.

SICINIO

Ma è possibile che in così poco tempo un uomo cambi natura?

MENENIO

C’è una bella differenza tra un verme e una farfalla, no? Eppure la farfalla era un verme. Questo Marzio, da uomo, s’è fatto dragone. Ha messo le ali, è qualcosa di più d’una bestia che striscia.

SICINIO

Amava sua madre moltissimo.

MENENIO

Anche me amava; e ora ricorda sua madre come la ricorda un cavallo di ott’anni. Ha una faccia da fare acida l’uva matura. Quando cammina avanza come una catapulta, la terra si ritira dai suoi piedi. È capace di trapassare una corazza con un colpo d’occhio, parla come una campana e se brontola è una scarica d’artiglieria. Quando siede sul trono pare una statua d’Alessandro Magno. Se dà un ordine, gli basta aprire la bocca ed è fatto. Per essere un dio non gli manca che l’eternità e un cielo in cui troneggiare.

SICINIO

Sì, e la pietà, se lo dipingi com’è.

MENENIO

Lo dipingo al vivo. Vedrai che pietà ne riporta sua madre. Non ha più pietà di quanto ha latte un tigre. Se ne accorgerà questa povera urbe. E tutto per colpa vostra.

SICINIO

Gli dei abbiano misericordia!

MENENIO

No, in questo caso gli dei non ne avranno. Non li abbiamo rispettati nell’esiliarlo, e ora che torna per tirarci il collo gli dei non ci rispetteranno.

Entra un messo

MESSO

Tribuno, se vuoi salva la vita, corri a casa.

I plebei hanno preso il tuo collega e lo vanno

trascinando per le vie, giurando tutti

che se le donne romane non riportano speranza,

lo ammazzeranno a poco a poco.

Entra un altro messo

SICINIO

Che notizie?

II MESSO

Buone notizie, buone! Le donne

ce l’hanno fatta, i Volsci hanno sloggiato

e Marzio è andato via.

Mai un giorno più lieto ha salutato Roma,

no, nemmeno quando cacciammo i Tarquini.

SICINIO

Amico,

sei sicuro che è vero? È proprio certo?

II MESSO

Certo come il sole è di fuoco.

Dove t’eri imboscato, che lo metti in dubbio?

Un fiume in piena non ruppe mai sotto un arco

con l’impeto che fa contro le porte

la gente rassicurata. Ecco, li senti?

Trombe, oboi, tamburi tutti assieme

Trombe, sambuche, salteri, pifferi,

tamburelli e cimbali e i Romani urlanti

fanno ballare il sole. Sentili!

Grida all’interno

MENENIO

Splendide notizie!

Vado a incontrare le donne. Questa Volumnia

vale consoli, senatori, patrizi,

da riempirne una città. Di tribuni come te

ce ne vogliono un mare e un continente.

Hai pregato bene oggi. Stamattina

non avrei dato un soldo per diecimila

delle vostre strozze. Senti che allegria!

Altra musica e altre grida

SICINIO

Prima di tutto, gli dei ti benedicano

per la notizia; poi, accetta

i miei ringraziamenti.

II MESSO

Tribuno, abbiamo tutti un sacco di ragioni

per un sacco di ringraziamenti.

SICINIO

Sono vicine alla città?

II MESSO

Quasi alle porte.

SICINIO

Andiamo loro incontro, facciamogli

festa anche noi.

Escono

ATTO QUINTO – SCENA QUINTA

Entrano due senatori, con Volumnia, Virgilia e Valeria, e attraversano la scena con altri patrizi

I SENATORE

Ecco la nostra patrona, la vita di Roma!

Convocate le tribù, lodate gli dei,

e accendete fuochi di giubilo. Spargete fiori

sul loro cammino. Gridando cassate il grido

che bandì Marzio, richiamatelo col benvenuto

a sua madre. Gridate “Bentomate,

nobili donne, bentornate!”

TUTTI

Bentornate, nobili donne, bentomate!

Fanfara con tamburi e trombe. Escono

ATTO QUINTO – SCENA SESTA

Entra Tullio Aufidio, con persone del seguito

AUFIDIO

Andate a dire ai signori della città

che io sono qui. Consegnate questo messaggio.

Lo leggano, e vadano poi al foro dove

dinanzi a loro e al popolo

darò le prove che è vero. L’uomo che accuso

è entrato ora in città, e intende apparire

dinanzi al popolo, sperando

di scagionarsi a parole. Fate presto.

Escono le persone del seguito

Entrano tre o quattro cospiratori della fazione di Aufidio

Benvenuti!

I COSPIRATORE

Come sta il nostro generale?

AUFIDIO

Come uno

che è avvelenato dalle proprie elemosine

e assassinato dalla generosità.

II COSPIRATORE

Nobilissimo

Aufidio, se ancora sei di quell’idea

di cui ci hai voluto partecipi, noi

ti sbarazzeremo dal pericolo.

AUFIDIO

Non posso

ancora dirlo. Bisogna agire

secondo gli umori del popolo.

III COSPIRATORE

Il popolo sarà incerto finché c’è contrasto

tra di voi. Ma appena uno cade,

l’altro eredita tutto.

AUFIDIO

Lo so,

e il mio pretesto per colpirlo può

motivarsi bene. Io l’ho sollevato, e ho impegnato

l’onore sulla sua fedeltà. E lui, giunto

così in alto, ha annaffiato le sue nuove piante

con la rugiada dell’adulazione, incantando

i miei amici. E per questo

ha piegato la sua natura, che prima

era sempre apparsa brusca, indomita, libera.

III COSPIRATORE

Sì, la sua ostinazione

quando si candidò console, e perse

per non volersi piegare…

AUFIDIO

Stavo per dirlo

Bandito per questo, venne al mio focolare,

offrì la gola al mio coltello. Io lo accolsi,

lo feci mio collega, accettai

tutte le sue richieste, anzi gli permisi

di scegliere tra i miei soldati, per

realizzare i suoi piani, gli uomini migliori,

i più forti. Mi misi io stesso

a sua disposizione.

Lo aiutai a mietere quella fama

che finì col far tutta sua, e

m’inorgoglivo a farmi questo torto.

Finché in ultimo parevo un suo subalterno,

e non suo eguale, ed egli mi pagava

con la sua degnazione, come se fossi

un mercenario.

I COSPIRATORE

Vero, signore mio.

L’esercito se ne stupiva. E infine

quando Roma era vinta e ci aspettavamo

non meno bottino che gloria…

AUFIDIO

Questo

è stato il fatto per cui ogni mio sforzo

è, teso contro di lui. Per poche gocce

di spurgo donnesco, che vanno

a dozzina, come le menzogne, ha venduto

il sangue e la fatica

della nostra grande impresa. Per questo

morirà, ed io rinascere

nella sua caduta. Ma sentite!

Suonano tamburi e trombe, fra grandi acclamazioni del popolo

I COSPIRATORE

Nella tua stessa città sei entrato come un corriere

senza nessun bentomato. Lui torna e il fracasso

spacca l’aria.

II COSPIRATORE

E questi poveri imbecilli

ai quali ha sgozzato i figli, si spellano

la gole vili per glorificarlo.

III COSPIRATORE

E dunque

al momento giusto, prima che parli o

muova la gente con ciò che vuol dire,

fagli sentire la spada, e noi

ti diamo una mano. Una volta steso

racconta la storia a modo tuo, e seppellirà

la sua carcassa e le sue ragioni.

AUFIDIO

Zitti.

Arrivano i senatori.

Entrano i maggiorenti della città

TUTTI I MAGGIORENTI

Un caldo bentornato in patria.

AUFIDIO

Non l’ho meritato.

Ma, nobili signori, avete letto bene

quanto vi ho scritto?

TUTTI

Sì.

PRIMO MAGGIORENTE

E ci addolora

saperlo. Gli errori che ha fatto,

prima dell’ultimo, io penso, potevano

passarsi con qualche lieve riparazione.

Ma fermarsi quando doveva incominciare,

gettar via il vantaggio di aver pronto un esercito,

lasciandoci per guadagno le spese fatte,

firmando un trattato con un nemico arreso –

ciò non ammette giustificazione.

AUFIDIO

Ecco, viene. Sentirete cosa dice.

Entra Coriolano marciando con tamburi e bandiere, seguito da una folla di popolani

CORIOLANO

Salve, signori! Io torno da soldato

vostro, non affetto da amore per la mia terra

più di quando partii da qui, ma sempre

sottomesso ai vostri alti ordini.

Sappiate che il mio tentativo ha avuto successo,

e che ho aperto al vostri eserciti una via

sanguinosa sino alle porte di Roma. Il bottino

che abbiamo riportato supera di un buon terzo

le spese della guerra. Abbiamo concluso

una pace tanto onorevole per Anzio

che te per Roma. E qui vi consegnamo

firmato dai consoli e dai patrizi, e col sigillo

del Senato, l’accordo raggiunto.

AUFIDIO

Non leggetelo,

nobili signori, ma dite a questo

grandissimo traditore, che egli ha abusato

dei vostri poteri.

CORIOLANO

Traditore? Ma come!

AUFIDIO

Sì, traditore, Marzio!

CORIOLANO

Marzio?

AUFIDIO

Sì, Marzio, Caio Marzio! O credi

che ti farò bello del tuo furto, del tuo

nome rubato, Coriolano, a Corioli?

Signori e capi dello Stato, costui

ha tradito con perfidia la vostra causa,

e ha ceduto per qualche goccia d’acqua

salata, la vostra città, Roma – dico

la vostra città – a sua moglie e sua madre,

stracciando giuramenti e propositi

come un ritorto di seta marcia,

e senza neanche sognarsi

un consiglio di guerra. Alle prime lacrime

della balia, sprecò frignando e strillando

la vostra vittoria, tanto che i paggi

arrossirono per lui, e gli uomimi d’onore

restarono a guardarsi di sasso.

CORIOLANO

Lo senti, Marte?

AUFIDIO

Non nominare il dio, frignoncello!

CORIOLANO

Eh?

AUFIDIO

Sì, null’altro.

CORIOLANO

Mentitore spudorato, mi fai scoppiare

il cuore nel petto. “Frignoncello”! Schiavo!

Perdonatemi, signori, è la prima volta

che sono costretto all’insulto. Il vostro giudizio,

voi venerabili, deve smentire questo cane;

e ciò che sa lui stesso – lui che addosso

ha stampati i miei colpi di frusta, lui

che si porta alla tomba le mie bastonate –

contribuirà a ricacciargli in gola

le sue menzogne.

I MAGGIORENTE

Calma, ambedue, e ascoltatemi.

CORIOLANO

Fatemi a pezzi, Volsci. Uomini e ragazzi,

insanguinate di me tutte le vostre lame.

“Frignoncello”! Cane bugiardo! Se nei vostri

annali avete scritto la verità,

c’è scritto che come un’aquila in un colombaio

ho scompigliato i vostri a Corioli.

Lo feci da solo. “Frignoncello”!

AUFIDIO

E voi,

nobili signori, vi farete ricordare

quel suo colpo di fortuna che fu

la vostra vergogna, da questo empio fanfarone

qui davanti ai vostri occhi, e ai vostri orecchi?

TUTTI I COSPIRATORI

Muoia per questo.

TUTTI I POPOLANI

Fatelo a pezzi! Subito! Ha ucciso mio figlio! Mia figlia! Ha ucciso mio nipote Marco! Ha ucciso mio padre!

II MAGGIORENTE

Pace, oh! Niente violenza! Pace!

Quest’uomo è nobile e la sua fama

abbraccia l’orbe terrestre. Le sue colpe

recenti verso di noi saran giudicate

legalmente. Aufidio, fermati,

non turbare la pace.

CORIOLANO

Ah se potessi

contro di lui e sei altri Aufidi o più – la sua razza

usare liberamente questa spada!

AUFIDIO

Canaglia insolente!

TUTTI I COSPIRATORI

Ammazza, ammazza, ammazza, ammazzalo!

I cospiratori snudano le spade e uccidono Marzio, che cade Aufidio mette un piede su di lui

I MAGGIORENTI

Fermi, fermi, fermi, fermi!

AUFIDIO

Nobili signori, ascoltatemi.

I MAGGIORENTE

Ah, Tullo!

II MAGGIORENTE

Hai fatto un’azione su cui il valore piangerà.

III MAGGIORENTE

Non stargli addosso. Voi tutti, silenzio.

Via quelle spade.

AUFIDIO

Signori, quando saprete – e in questo scompiglio

da lui voluto è impossibile –

il grande pericolo ch’era per voi

la vita di quest’uomo, sarete contenti

che sia stato ucciso così.

Piaccia ai vostri onori convocarmi

al Senato, mi dimostrerò vostro leale

servo, o, accetterò il giudizio più duro.

I MAGGIORENTE

Portate via il corpo, fategli onoranze funebri.

Sia considerato la salma più nobile che mai

araldo accompagnò all’urna.

II MAGGIORENTE

La sua irruenza

toglie ad Aufidio gran parte di biasimo.

Teniamolo in conto, e molto.

AUFIDIO

La mia rabbia è scomparsa,

ora sento il dolore. Sollevatelo.

Tre dei guerrieri di grado più alto

diano una mano, io sarò il quarto.

Tu batti il tamburo, che suoni a lutto.

Bilanciate le vostre picche. In questa città

quest’uomo ha reso vedove e senza figli

molte donne che ancora piangono il danno,

e tuttavia avrà un nobile monumento. Aiutatemi.

Escono portando il corpo di Marzio. Suona una marcia funebre

Coriolano
(“Coriolanus” – 1607 – 1608)
Introduzione – Riassunto
Atto I
Atto II
Atto III
Atto IV
Atto V

Introduzione al teatro di Shakespeare
Elenco opere teatrali

PirandelloWeb