1612/1613- Enrico VIII

(“Henry VIII” – 1612 – 1613)

Traduzione di Andrea Cozza

Introduzione – Riassunto
Atto I
Atto II
Atto III
Atto IV
Atto V

Introduzione al teatro di Shakespeare
Elenco opere teatrali

Enrico VIII

Introduzione

da Carabinieri.it

L'”Enrico VIII”, o meglio “La famosa storia della vita di Enrico VIII” è l’ultimo dramma di Shakespeare, e segna il ritorno, dopo un intervallo di ben 14 anni, ai grandi temi della storia nazionale affrontati nelle due grandi tetralogie che trattano le vicende del governo inglese dal 1398 al 1521, come anche nel “Re Giovanni”, che risale agli esordi della sua attività di drammaturgo.

Quando William Shakespeare – dopo aver raccontato la storia di tanti altri sovrani inglesi – scrisse e rappresentò in teatro la sua storia, Enrico VIII era morto ormai da sessantasei anni; sua figlia Elisabetta (la grande regina che consolidò le conquiste politiche del padre) era passata a miglior vita da tredici anni. Correva l’anno 1613, e The famous history of the life of king Henry the Eight (per citare il titolo originale della tragedia: La famosa storia della vita del re Enrico Ottavo) riscosse un enorme successo di pubblico, a conforto dell’intelligenza degli spettatori, se si presta fede al Prologo che precede la rappresentazione. «Questa volta», spiega l’autore, «non vengo a farvi ridere; abbiamo da presentarvi cose gravi accigliate e tristi per alti travagli: scene di dolore d’una tale maestà e nobiltà da strapparvi dagli occhi fiumi di pianto. Quelli d’animo tenero e pietoso potranno ora, se vogliono, versare una lacrima; la vicenda la merita. Chi ha speso il suo denaro con la viva speranza di veder cose credibili, questa volta vedrà cose vere».

L’Enrico VIII fu l’ultima opera teatrale scritta da Shakespeare, che morì tre anni dopo. Nei cinque atti si raccontavano «cose vere», e relativamente recenti. Molte erano controverse e dolorose. Questo spiega perché il più grande autore elisabettiano preferì occuparsene quando ormai gli ultimi protagonisti erano definitivamente scomparsi dalla scena. La tragedia si svolge nel periodo centrale della vita del re: la fine del matrimonio con Caterina d’Aragona, incapace di dare al sovrano l’erede maschio che lui pretendeva; lo strappo con la Chiesa di Roma; il matrimonio con Anna Bolena; la nascita di Elisabetta. E proprio con la nascita della futura regina si conclude il dramma, con il panegirico dell’arcivescovo di Canterbury, Thomas Cranmer: «Questa fanciulla regale – vegli il cielo sempre su di lei – già dalla culla promette a questa terra le mille e mille benedizioni che il tempo va maturando. Ella sarà d’esempio e modello – ma non tutti quelli che or sono vivi vedranno la sua grandezza – ai principi suoi contemporanei e successori. La regina di Saba non fu mai tanto assetata di saviezza e di virtù quanto sarà quest’anima bella».
Le circostanze storiche suggerivano certo di rivolgere pubblici encomi ad Elisabetta. Ma gli inglesi – al principio del XVII secolo – avevano solide ragioni di riconoscenza per la sovrana. Gli anni di Enrico non erano stati anni facili. Il boia faceva gli straordinari, la rottura con la Chiesa Romana presentava molte incognite, e – a tratti – l’Inghilterra apparve isolata (e accerchiata) dal resto dell’Europa. Il breve regno di Edoardo, l’unico figlio maschio di Enrico, dettò le regole della Riforma, che il padre aveva appena abbozzato, e s’incrudelì la persecuzione nei confronti dei cattolici. Maria, la primogenita, andata in sposa al figlio di Carlo V, Filippo, futuro re di Spagna e cattolicissimo, ribaltò la situazione, con un tentativo di ripristinare la supremazia del papato, accompagnato da altre persecuzioni (che fecero guadagnare a Maria il soprannome di “sanguinaria”). Soltanto con Elisabetta si tirarono le somme di quella rivoluzione: e il bilancio fu positivo. L’Inghilterra conquistò definitivamente la propria insularità (dopo aver perso la regione di Calais, nel continente), che si tramutò in un elemento di forza, e non di debolezza. L’orgoglio di Enrico VIII – che non voleva ipoteche di alcun genere sul suo regno – divenne l’orgoglio di tutti gli inglesi.
Enrico era un personaggio formidabile, da ogni punto di vista. E, infatti, se ne parla ancora a quasi cinque secoli di distanza. Continua a suscitare l’interesse di biografi, di scrittori, di romanzieri e sceneggiatori. Per le sei mogli (e le innumerevoli amanti) invidia dei maschilisti impenitenti, orrore per suffragette e femministe. Ma anche per il vigore fisico, che ne faceva il campione dei tornei cavallereschi, per la crudeltà senza limiti né pentimenti. E per la saggezza con la quale regnò per moltissimi anni. Ma a farne un protagonista della Storia, e uno degli uomini che hanno contribuito a mutarne il corso, fu la decisione (in parte provocata da ragioni personali, che avevano a che vedere con le passioni, e in parte da un disegno lucido) di rompere con la Chiesa cattolica e fondarne una – quella anglicana – di cui il re d’Inghilterra è il capo supremo.
I contemporanei – come spesso accade – non si resero conto di quel che accadeva e di quel che sarebbe accaduto. La storica Antonia Fraser (moglie del commediografo Harold Pinter, Nobel per la Letteratura lo scorso anno) osserva che «nessuno predisse mai che il re si sarebbe sposato sei volte; nessuno, del resto, a tale profezia avrebbe creduto. Neanche le sei regine avrebbero creduto a chi avesse anticipato loro il destino che le attendeva: se non era prevedibile che ben due principesse andassero incontro a un ripudio, ancor meno lo era che quattro donne di origini relativamente modeste assurgessero al massimo onore di consorte del re e che due di esse, entrambe in apparenza innocue, finissero sul patibolo per alto tradimento». Infine, «nessuno avrebbe potuto prevedere che lo snello, biondo, incantevole principe – “il più bel principe d’Europa” – salito al trono d’Inghilterra nel 1509, appena prima di compiere diciott’anni, morisse quasi quarant’anni dopo, mostro di obesità, con la fama di un barbablù”. Fama meritata, per giunta.
Non si resero conto di nulla neppure nelle altre corti d’Europa, dove la storia delle sei mogli di Enrico VIII, con tutti i suoi drammi, i suoi risvolti tragici, raccapriccianti e a volte perfino comici, fu seguita con stupore e incredulità. Il re di Francia, che non era un santo nel campo delle relazioni extraconiugali, restò di stucco quando seppe che il suo rivale inglese aveva appena ripudiato la quarta moglie, sposata sei mesi prima, per amore di una ragazzetta di cui non si era mai sentito parlare e che per età avrebbe potuto essere nipote della sua prima moglie. «E questa è ora la regina?», chiese Francesco I alludendo a Caterina Howard. Quando gli dissero di sì, il re di Francia dette un gran sospiro. A questo riguardo espresse sentimenti comuni a molti l’incauta damigella di corte che nel 1540 esclamò: «Che razza di uomo, il re! Ma quante mogli vuole?».
L’incontro tra Enrico VIII e Francesco I al Campo del Drappo d’Oro (Versailles, Museo del Castello)Nel 1534, dopo che la Chiesa aveva respinto la richiesta di annullamento del matrimonio con Caterina d’Aragona avanzata da Enrico VIII, il re d’Inghilterra emanò, con l’appoggio del parlamento, l’Atto di Supremazia, che sancì la nascita della Chiesa Anglicana. La vertenza fra Roma e Londra si era trascinata per tre anni, durante i quali Enrico si era fatto concedere l’annullamento dall’arcivescovo di Canterbury, Thomas Cranmer (da lui nominato) e il papa Clemente VII aveva reagito con la scomunica. Se il re ebbe una diretta responsabilità nella rottura, il pontefice di Roma non fece nulla per evitarla. L’Atto di Supremazia del 1534 sottraeva la Chiesa inglese all’autorità papale, ponendola alle dirette dipendenze del sovrano, ma non prevedeva alcun cambiamento dottrinale e liturgico: la costituzione e i dogmi restavano quelli della Chiesa cattolica (che Enrico aveva difeso all’epoca dello scisma luterano, scrivendo persino un saggio contro il monaco di Wittenberg). La decisiva svolta in senso protestante si ebbe nel 1552, sotto il regno di Edoardo VI.
Personaggio sanguigno e irascibile, Enrico era il perfetto rappresentante del potere assoluto: il monarca che faceva e disfaceva a proprio piacimento, liberandosi bruscamente degli oppositori, favorendo i cortigiani. Chiunque ostacolasse i suoi disegni sapeva già che avrebbe fatto i conti con il boia: accadde così ad Anna Bolena e a Caterina Howard, ma lo stesso destino toccò anche a Tommaso Moro (santificato successivamente dalla Chiesa di Roma) e a John Fischer (scampò casualmente alla forca il cardinale Thomas Wolsey, che aveva guidato il governo prima di Moro, ma soltanto perché un malore lo stroncò alla vigilia dell’esecuzione). A dispetto di queste “intemperanze”, Enrico VIII fu un buon monarca: la sua rottura con la Chiesa non fu determinata soltanto dal desiderio di ripudiare la prima moglie, Caterina d’Aragona, per sposare la seconda, Anna Bolena, ma dal disagio che serpeggiava in larga parte dell’Europa in un’epoca nella quale la Chiesa non brillava per moralità. Il pugno di ferro con il quale guidò l’Inghilterra nasceva anche dall’esigenza di ridare nerbo al Paese dopo il lungo periodo di guerra civile che si era concluso con la vittoria dei Tudor contro gli York.
Un autorevolissimo storico inglese, George Macaulay Trevelyan, sostiene che «Enrico VIII mandò al rogo i protestanti, al tempo stesso in cui impiccava e decapitava i cattolici che si opponevano a una rivoluzione di ispirazione anti-clericale. E questa politica, che assume oggi un aspetto così incomprensibile, incontrò allora l’approvazione della maggioranza del popolo inglese. Nella babele di voci che si levarono durante il regno di Enrico, la nota dominante è quella di un anticlericalismo cattolico e nazionalistico. Soltanto dopo la sua morte, la logica della nuova situazione all’interno e all’estero spinse anticlericali e nazionalisti inglesi a difendersi dalla reazione cattolica attraverso l’alleanza con i protestanti; e, molto lealmente, durante il regno di Elisabetta, finirono per abbracciarne le dottrine».
All’inizio del XVI secolo l’Inghilterra era un piccolo Paese, con pochissimi abitanti. Si calcola che fossero due milioni e mezzo, mentre il re di Francia poteva già allora contare su quindici milioni di sudditi. Enrico – che, con molti secoli di anticipo, si rivelò un genio delle pubbliche relazioni – trasformò il suo regno in una potenza europea. Ricorrendo a tutte le armi della comunicazione, e assai poco a quelle degli eserciti. Il suo incontro con Francesco I nel Campo del Drappo d’Oro (vicino Calais) fu – per magnificenza – uno spettacolo straordinario, che convinse le altre corti europee a prendere nella debita considerazione quell’omone imponente, spesso allegro, sempre al centro del palcoscenico.
I diplomatici che ebbero la ventura di incontrarlo ne fecero descrizioni ammirate. Un medico spagnolo – che faceva parte del seguito di Caterina d’Aragona – disse che il re d’Inghilterra aveva «membra gigantesche». L’ambasciatore veneziano Giustinian lo trovò «bellissimo, quanto natura potrebbe fare»; scrisse che aveva una barba «che pare d’oro» e una pelle chiara e delicata come quella di una donna. «Vedere il re che gioca a tennis, con la pelle bianca sotto la camicia finissima, è la più bella cosa del mondo». I suoi appetiti (di ogni genere) erano possenti, e tali rimasero fin quasi alla fine, quando il corpo era ormai devastato, e la salute molto precaria. Ed era anche – con estrema coerenza – uomo di passioni e temperamento sopra le righe.
Nutriva un immenso amore per la vita. Donne, lusso, gioco, lotta, caccia, ballo, feste in maschera: non si negava nulla. E trasmetteva agli altri la stessa vitalità. Amava anche la musica, e sapeva suonare ogni genere di strumento. Compose parecchie canzoni. Tutte le donne cadevano ai suoi piedi, e lui – che in questo genere di rapporti si lasciava trascinare dal cuore, e non solo – non si sottraeva.
Non era, però, un uomo fatuo. Era stato educato in modo rigoroso. Praticava le buone letture, ed era in grado di fronteggiare chiunque, in qualunque genere di discussione: era ferrato persino nelle dispute dottrinarie e teologiche, e quando il papa gli negò il diritto di divorziare da Caterina, mise in seria difficoltà i teologi del Vaticano con argomentazioni sottili e ben costruite. La «questione» che si aprì con Roma, sottolinea Trevelyan, «non fu, a rigor di termini, una vera e propria questione di divorzio. Dal punto di vista tecnico, si trattava di stabilire se Enrico fosse mai stato veramente sposato con Caterina d’Aragona, poiché suo fratello Arturo era stato il primo marito di lei. Un papa precedente aveva concesso la dispensa al suo matrimonio con Enrico, ma a Clemente VII fu chiesto di dichiarare che il matrimonio non era mai stato valido, e che Enrico era ancora un robusto scapolo. Infatti, egli voleva sposare Anna Bolena. Come la maggior parte dei monarchi di quel tempo e di molti altri tempi, prima e dopo d’allora, si sarebbe perfettamente adattato a tenersela come amica, come già era, se non avesse desiderato un erede maschio legittimo per assicurare all’Inghilterra una successione indiscussa e un governo forte, dopo la sua morte. Da Caterina non poteva più attendere alcun figlio, e la loro unica erede era la principessa Maria. Non si era mai avuta una regina regnante in Inghilterra, e l’idea poco consueta di una successione femminile parve costituire per il Paese la minaccia di una guerra civile o il governo di un principe consorte straniero».
Enrico – in altre parole – si fece guidare dalla ragione di Stato. Dopo il Sacco di Roma, il papa era ostaggio dell’imperatore Carlo V, e ad Enrico – osserva un altro storico inglese, G. R. Elton – «sembrò intollerabile che gli interessi dell’Inghilterra dovessero dipendere, tramite il papa, dalla volontà dell’imperatore. Nella rabbia risvegliata dal torto personale, finì per rendersi conto di ciò che molti Inglesi avevano già chiaro da molto tempo: che l’Inghilterra, se voleva essere veramente una nazione, doveva ripudiare una giurisdizione spirituale formulata dai suoi rivali e nemici stranieri». Assecondò la storia, e ne mutò il corso, promuovendo il suo Paese al ruolo da protagonista che ancora gli compete.

Riassunto

 L’azione è ambientata a Londra, Westminster e Kimbolton. Narra le vicende storiche del ripudio della regina Caterina d’Aragona da parte di Enrico VIII; l’allontanamento di Caterina dalla corte (in parte per gli intrighi del cardinale-ministro Thomas Wolsey, che si vendica di lei per non aver ottenuto l’arcivescovado di Toledo, non essendo Caterina intervenuta in suo favore presso l’imperatore del Sacro Romano Impero Carlo V, già Carlo I di Spagna); l’incoronazione di Anna Bolena a regina d’Inghilterra. Dopo numerosi avvenimenti tragici, la nascita della figlia Elisabetta e il suo battesimo concludono l’opera con un’atmosfera di serenità e di speranza. Accanto alla vicenda principale, sono rappresentati i drammi del duca di Buckingham (condannato a morte per gli intrighi del cardinale Wolsey) e del cardinale Wolsey (privato di tutti gli incarichi e di tutti i beni, e sostituito da Tommaso Moro nella carica di ministro, per aver scritto al papa di bloccare l’istanza di divorzio di Enrico VIII). L’autore mostra una particolare attenzione al dramma degli sconfitti della storia (duca di Buckingham, Caterina, Wolsey) ed è magnanimo nel far risaltare i loro meriti. Del resto, Shakespeare conosce gli alti e bassi della storia: quando scriveva, Tommaso Moro era stato giustiziato (1535) per avere rifiutato la ratifica del divorzio del re e la ribellione all’autorità del papa. Anche Wolsey si riscatta nella caduta, riconoscendo umilmente la “vana pompa e gloria di questo mondo”, avendo ritrovato “una pace interiore che supera tutte le dignità della terra”.

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