Sogno di una notte di mezza estate – Atto V

(“A Midsummer Night’s Dream” 1593/1595)

Introduzione – Riassunto
Atto I
Atto II
Atto III
Atto IV
Atto V

Introduzione al teatro di Shakespeare
Elenco opere teatrali

Sogno di una notte di mezza estate - Atto V

ATTO QUINTO – SCENA PRIMA (Unica)

Entrano Teseo, Ippolita, Cortigiani e Valletti, fra i quali Filostrato.

IPPOLITA

Strane cose, Teseo, quelle di cui parlano questi innamorati.

TESEO

Più strane che vere. Mai sarò indotto a credere

a queste favole grottesche, a queste storielle di Fate.

Gli innamorati e i pazzi hanno i cervelli in tale ebollizione,

e tanto fervide son le loro fantasie, che concepiscono più

di quanto il freddo raziocinio mai comprenda.

Il lunatico, l’innamorato e il poeta,

sol di fantasie sono composti.

L’uno vede più demoni di quanti l’inferno ne contenga –

e questo è il pazzo. L’amante, frenetico altrettanto,

vede la beltà di Elena nel volto d’una zingara.

L’occhio del poeta, roteando in sublime delirio,

va dal cielo alla terra e dalla terra al cielo,

e mentre la fantasia produce

forme ignote, la sua penna

le incarna, ed all’etereo nulla

dà dimora e nome.

Tali artifici possiede la fervida immaginazione

che se una gioia percepisce,

sùbito concepisce qualcosa che l’arreca.

E se di notte immagina spavento,

presto un cespuglio si trasforma in orso!

IPPOLITA

Ma il racconto di tutto ciò che accadde questa notte,

e il fatto che le menti di ognun furon stravolte,

attesta qualcosa di più che fantastiche visioni,

e la cosa assume grande consistenza –

per quanto strana e prodigiosa.

Entrano gli innamorati; Lisandro, Demetrio, Ermia ed Elena.

TESEO

Ecco i nostri innamorati, in gran giubilo e allegria.

Gioia, miei cari amici. Gioia e giorni d’immutato amore

accompagnino sempre i vostri cuori!

LISANDRO

Più che noi

accompagnino voi, sui vostri regali sentieri, ai vostri deschi, al vostro talamo!

TESEO

Suvvia, con quali mascherate, con quali danze,

consumeremo la lunga èra delle tre interminabili ore

che separano la fine della nostra cena dal nostro talamo?

Dov’è il ministro dei nostri spettacoli?

Quali divertimenti ha apprestato? Non v’è per caso un dramma

che possa alleviare un’ora di tormento?

Chiamatemi, dunque, Filostrato.

FILOSTRATO (facendosi avanti)

Eccomi qua, potente Sire.

TESEO

Dimmi, qual passatempo offri tu questa sera?

Quale spettacolo, quale musica? Come ingannare, dimmi,

il pigro tempo, se non con qualche spasso?

FILOSTRATO

Ecco qua un elenco degli svaghi allestiti.

Scelga Sua Altezza, con quale cominciare.

(Porge un foglio.)

TESEO (legge)

“La Battaglia dei Centauri, cantata

da un eunuco ateniese sopra l’arpa”?

Ma no, l’ho già narrata all’amor mio

in onor d’Ercole, mio illustre parente.

(Legge.) “Il Tumulto delle Ebbre Baccanti,

che furibonde dilaniano il Tracio Cantore”?

Vecchio dramma, che fu rappresentato

quando tornai da Tebe, vincitore.

(Legge.) “Le Muse tre volte tre che piangono

la morte del Sapere mendico, recentemente scomparso”?

È certo un’aspra satira pungente

che non s’addice al giubilo nuziale.

(Legge.) “Breve scena tediosa del giovane Piramo

e di Tisbe, amor suo, tragicissimo spasso”?

Dramma spassoso e tragico? Tedioso e breve?

È ghiaccio caldo, e neve in piena estate!

Come trovare accordo in un tal disaccordo?

FILOSTRATO

Sire, la lunghezza del dramma è solo dieci parole.

È lo spettacolo più corto ch’io conosca.

Ma dieci parole son financo troppe…

il che lo fa tedioso. In tutto il dramma

non c’è una sola parola che s’addica, o adatto un solo attore.

E tragico, mio nobile signore, esso pur è,

ché Piramo s’uccide. E devo confessare

che, alle prove, mi si bagnaron gli occhi.

Mai lacrime più gioiose piovvero giù

dagli scoppi sonori delle risa.

TESEO

Chi sono dunque, Filostrato, gli attori?

FILOSTRATO

Gente dalle mani incallite, lavoratori d’Atene,

che non han mai faticato col cervello,

e adesso han messo a dura prova le lor memorie inesperte

con questo dramma per le vostre nozze.

TESEO

E noi lo sentiremo.

FILOSTRATO

Ma no, nobil signore! Non è roba per voi. Sono stato ad ascoltarlo,

e non val nulla, proprio nulla al mondo.

A meno che non troviate sollazzo nei loro propositi,

condotti con sforzi esagerati e tante pene crudeli,

di rendervi omaggio.

TESEO

Voglio ascoltare il dramma.

Non può esserci alcun male

in cosa fatta con sincerità e con zelo.

Suvvia, portatemeli qui. E voi, dame, prendete i vostri posti.

(Esce Filostrato.)

IPPOLITA

Mi duole veder sopraffatti dei poveri inetti,

e lo zelo crollare nell’esercizio del dovere.

TESEO

Ma tu, diletta mia, non vedrai niente di questo.

IPPOLITA

Filostrato ha detto che non valgono nulla in queste cose.

TESEO

E per un”nulla” vieppiù cortesi saremo a ringraziarli.

Il nostro divertimento sarà nell’intender ciò ch’è stato frainteso.

E ciò che un misero zelo non riesce a fare, l’animo nobile

giudicherà in virtù dell’impegno, e non del merito.

Ovunque io sia andato, grandi eruditi hanno inteso

salutarmi con complimenti premeditati.

Ed io li ho visti tremare e impallidire,

fermarsi nel bel mezzo del discorso,

strozzar dalla paura le lor studiate parole nella gola,

e infine, perder la favella e ammutolire

senza potermi dare il benvenuto. Credimi, amore mio,

in quel silenzio io seppi cogliere il saluto

e nella modestia di un pavido dovere

lessi quanto nelle lingue rumorose

dell’eloquenza presuntuosa e ardita.

E dunque l’affettuosità e l’ingenuità d’una lingua impacciata,

parlando poco, per me parlan di più.

(Entra Filostrato.)

FILOSTRATO

Col permesso di Vostra Grazia, il Prologo è pronto.

TESEO

Che il Prologo si faccia avanti. Squilli di trombe.

Entra Zeppa nella parte del Prologo.

PROLOGO

Se vi offenderemo, è col nostro intento.

                Di persuadervi che non veniamo per offendervi,

                ma di proposito. Mostrarvi la nostra incapacità,

                ecco il vero principio del nostro fine.

                Dunque considerate che con malo proposito veniamo.

                Non già siam qua per contentarvi e divertirvi.

                Non già! Perché abbiate a pentirvene

                gli attori son pronti a cominciare. E dalla loro pantomima

                verrete a sapere tutto ciò che vorrete sapere.

TESEO

Costui – mi pare – tien poco conto della punteggiatura.

LISANDRO

Ha fatto correre il Prologo come un puledro selvaggio. Non sa dove fermarlo. V’è qui da ricavare un buon precetto, mio Sire; Non basta parlare; bisogna anche saper cosa dire.

IPPOLITA

In verità ha recitato il suo Prologo come un bambino suona il flauto. Ha emesso un suono, ma senza governarlo.

TESEO

Il suo discorso era come una catena aggrovigliata; tutte le maglie a posto, ma tutte confuse. Chi è il prossimo a parlare?

Entrano, preceduti da un trombettiere, (Rocchetto, nella parte di) Piramo, (Zufolo, in quella di) Tisbe, (Beccuccio, in quella del) Muro, (Agonia in quella del) Chiaro-di-luna e (Incastro in quella del) Leone.

PROLOGO

Dame e Cavalieri, la nostra comparsa qui vi stupirà.

                Ebbene, stupitevi pure finché poi tutto verrà messo in chiaro.

                Quest’uomo, se proprio volete saperlo, è Piramo.

                E questa avvenente signora è Tisbe, Tisbe in persona.

Quest’uomo d’intonaco e di calce è il Muro,

                il vil muro che separava i nostri innamorati.

                È per una sua fessura che i poveretti bisbigliavano fra loro.

                E nessuno penserà che ci sia qualcosa di male!

                Quest’uomo con la lanterna, un cane e un fastello di pruni,

                rappresenta il Chiaro-di-luna. Dacché, se v’interessa saperlo,

                i due amanti son convinti che non sia vergogna

                incontrarsi ad amoreggiare al chiar di luna alla tomba di Nino.

                Questa orribile belva – che Leon s’appella –

                fe’ fuggire impaurita, o meglio atterrita,

                Tisbe fedele, arrivata per prima, in piena notte.

                Ella, fuggendo, lasciò cadere il manto;

                e il vil leone, con lordate fauci,

                di sangue lo macchiò. Piramo giunge, allora,

                amabile, superbo, e della fida Tisbe

                scorge il trucidato manto. Al che

                col ferro, col ferro fiero, infame,

                intrepido si trapassa il seno ardente.

                E Tisbe, che all’ombra d’un gelso l’attende,

                estrae il pugnale dal petto dell’amante

                e con quello si uccide. Il resto

                lo saprete dal Leone, dal Chiaro-di-luna,

                e dagli innamorati, finché dura la scena.

Escono il Prologo, Piramo, Tisbe, Leone, Chiaro-di-luna.

TESEO

Mi piacerebbe sapere se parlerà anche il leone.

DEMETRIO

Sire, nessuna meraviglia. Dove tanti asini parlano, può benissimo parlare anche un leone.

MURO

In questo nostro dramma si dà il caso

                ch’io – che Beccuccio ho nome – rappresenti un muro.

                E dovreste pensar che questo muro

                abbia in sé il buco d’una crepa – ovverosia fessura –

                per il cui pertugio gl’innamorati Piramo e Tisbe

                parlavano spesso in gran segreto.

                Questa calce, quest’intonaco, e questa pietra,

                mostran ch’io son quel muro – proprio così!

                Ed è questa la crepa – a destra e a sinistra – attraverso la quale i paurosi amanti dovranno bisbigliare.

TESEO

E come si potrebbe desiderare che un muro di calce e pelo parlasse meglio?

DEMETRIO

Sire, è la partizione più arguta che io abbia mai udito.

Entra Piramo.

TESEO

Piramo s’avvicina al muro. Silenzio!

PIRAMO

O notte dal tetro sembiante! O notte che hai il viso tanto nero!

                O notte che sempre ci sei quando il giorno non c’è!

                O notte, o notte, ahimè, ahimè, ahimè,

                temo che Tisbe abbia scordato la promessa!

                E tu, o muro, o caro, leggiadro muro,

                che ti ergi fra la terra di suo padre e questa mia,

                tu, muro, o muro, o caro, amabil muro.

                mostrami il buco, ch’io possa col mio sguardo penetrarti.

(Il Muro diverge le dita a forma di “V”.)

Grazie, cortese muro. Che Giove per questo ti protegga!

                Ma cosa vegg’io? Io Tisbe alcuna non vedo!

                O perfido muro, la mia gioia per la tua crepa non veggo.

                Maledette sian le tue pietre, per avermi ingannato!

TESEO

Secondo me il muro – visto che è così sensibile – dovrebbe rispondere a tono.

PIRAMO

No, Sire, in verità no. “Per avermi ingannato” è l’imbeccata di Tisbe. Ella deve entrare ora, ed io devo guardarla dal buco. Vedrete, sarà come vi dico. Eccola che arriva!

Entra Tisbe.

TISBE

O muro, che gemere mi senti tanto spesso,

                perché dividi il mio bel Piramo da me!

                Le mie ceràsee labbra hanno spesso baciato le tue pietre,

                le pietre tue, in te murate con pelo e calce.

PIRAMO

Vedo una voce. Or m’approssimo al buco per vedere

                se riesco a udire il volto di mia Tisbe adorata.

                Tisbe?

TISBE

L’amante mio, penso tu sia. L’amante mio!

PIRAMO

Pensa pure ciò che vuoi, io son proprio Sua Grazia, l’amante tuo!

                E sempre fido ti son come Limandro.

TISBE

Ed io com’Elena, finché non mi uccidano i Fati.

PIRAMO

Non Cefàl sì fedele fu a Procro.

TISBE

Come Scefalo a Procro, io a te.

PIRAMO

Deh baciami attraverso il buco del vil muro.

TISBE

Io bacio il buco del muro, e non le labbra tue.

PIRAMO

Vorrai immantinente incontrarmi di Ninnolo alla tomba?

TISBE

Per la vita, per la morte, a te verrò senz’altro!

Escono Piramo e Tisbe (lui da una parte, lei dall’altra).

MURO

Or dunque, io, il Muro, ho qui finito la mia parte.

                E avendola finita, ecco che il Muro se ne va. Esce.

TESEO

E così, raso al suolo è ora il muro fra i due confinanti.

DEMETRIO

Non c’è rimedio, signor mio, quando i muri son tanto impertinenti da ascoltare di soppiatto.

IPPOLITA

Queste son le cose più stolte che io abbia mai udito.

TESEO

I migliori, in tal mestiere, non son altro che ombre. E i peggiori non son poi tanto male se un po’ di fantasia li rabbercia.

IPPOLITA

Ma allora si dovrà tutto alla vostra fantasia, e non alla loro.

TESEO

Se non pensiamo di loro peggio di quanto essi pensano di sé, posson passare per buoni attori. Ecco che fanno il loro ingresso due nobili bestie; un uomo e un leone.

Entrano il Leone e il Chiaro-di-luna.

LEONE

Voi dame, i cui cuori delicati si spaventano

                alla vista del più piccolo topo mostruoso che strisci sul suolo,

                può darsi, ora, forse, che possiate avere brividi e tremori

                quando il selvaggio leone ruggirà in tutta la sua spietata ferocia.

                Allora, ebbene, sappiate che io, Incastro falegname,

                sono una pellaccia di leone – e non, peraltro, mamma di leoni!

                E se dovessi da leone vero venir qui a conflitto

                sarebbe – per la mia vita – un vero guaio!

TESEO

Una bestia davvero gentile e coscienziosa.

DEMETRIO

Davvero il migliore a far la bestia ch’io, mio signore, abbia mai visto.

LISANDRO

Quanto a prodezza questo leone è una vera e propria volpe.

TESEO

È vero. E quanto ad astuzia è un’oca.

DEMETRIO

Sire, non è così. La sua prodezza non ce la fa a sopraffare la sua astuzia. E invece la volpe ce la fa a sopraffare l’oca.

TESEO

La sua astuzia – ne son sicuro – non ce la fa a sopraffare la sua prodezza. E l’oca non ce la fa a sopraffare la volpe. E va bene. Lasciamo il tutto alla sua astuzia, e intanto ascoltiamo la Luna.

CHIARO-DI-LUNA

Questa lanterna rappresenta la luna bicorne…

DEMETRIO

Costui avrebbe dovuto portare le corna sulla te-sta.

TESEO

Non è una luna crescente, e le sue corna sono invisibili nel cerchio.

CHIARO-DI-LUNA

Questa lanterna rappresenta la luna bicorne;

                ed io rappresento l’uomo nella luna.

TESEO

Questo è l’errore più madornale di tutti! L’uomo dovrebbe esser dentro la lanterna. Se no com’è che è l’Uomo-nella-luna?

DEMETRIO

Non osa entrarci dentro perché ha paura della candela. Come vedete divampa ed ha bisogno d’essere smoccolata.

IPPOLITA

Io sono stanca di questa luna. Magari cambiasse!

TESEO

Dallo scarso lume del suo cervello si direbbe che è luna calante. Ma, per cortesia, e per coerenza, bisognerà attender che tramonti.

LISANDRO

Va’ avanti, Luna!

CHIARO-DI-LUNA

Tutto quello che ho da dirvi è dirvi che la lanterna è la luna; io l’Uomo-nella-luna; che questo fascio di pruni è il mio fascio di pruni; e questo cane è il mio cane.

DEMETRIO

Insomma, tutte queste cose dovrebbero esser dentro la lanterna, perché son tutte nella luna. Silenzio! Arriva Tisbe.

Entra Tisbe.

TISBE

Questo è di Ninnolo l’antico avello. Ma dov’è l’amor mio?

LEONE

Ouuu!

Il leone rugge. Tisbe (lasciando cadere il manto) fugge via.

DEMETRIO

Bel ruggito, Leone!

TESEO

Bella fuga, Tisbe!

IPPOLITA

Bel lume di luna! In verità la luna risplende con molta grazia.

(Il Leone scrolla il manto ed esce.)

TESEO

Bella scrollata, Leone!

DEMETRIO

E qui arrivò Piramo…

LISANDRO

E il leone scomparve.

Entra Piramo.

PIRAMO

O luna soave, grazie dei tuoi raggi solari.

                Grazie, o luna, del tuo fulgente splendore!

                Ché ai tuoi vaghi rai aurei e scintillanti

                confido di scorger la fidissima Tisbe.

                               Ma ristài! Oh disdetta!

                               Or mira, misero cavaliero.

                Qual lutto tremendo qui scorgi!

                               Occhio, lo vedi?

                               Ma come può essere?

                Oh dolce anatroccola mia! Oh

                               il tuo bel mantello –

                               ahimè – lordo di sangue?

                Accorrete, Furie spietate!

                               Accorrete, Parche, accorrete!

                               Il filo, e lo stame tagliate!

                Colpite, trucidate, fatela finita, scannate!

TESEO

Una disperazione come questa, e la morte dell’amica diletta, possono quasi impietosire.

IPPOLITA

Dio mi danni se non sento pietà per lui!

PIRAMO

Oh Natura, ma perché mai creasti i leoni –

                poi che un leone ha deflorato l’amor mio?

                Che è… oh no, no… che era la più vaga delle dame

                che vissero mai, che amarono mai, che mai furono più simpatiche e giulive.

                               Sgorga e inonda, mio pianto!

                               Fuori, e trafiggi, mio brando,

                di Piramo la mammella!

                               Ah, la sinistra mammella

                               ove il cuore balzella! (Si ferisce.)

Così, così, così, io moro!

                               Ed eccomi morto.

                               Volato son via.

                È in cielo, lassù, l’anima mia.

                               Spegniti, lingua!

                               Vattene luna! (Esce il Chiaro-di-luna.)

Così, così, così, io moro! Ahi lasso! (Muore.)

DEMETRIO

Non “lasso”! “asso”, direi; dacché conta per uno.

LISANDRO

Meno d’un asso; dacché è morto, e non conta più nulla.

TESEO

Con l’aiuto d’un medico potrebbe riprendersi, e dimostrarsi non “asso” ma “asino”.

IPPOLITA

Com’è che la Luna se n’è andata prima che Tisbe torni indietro e scorga l’amante?

TESEO

Lo troverà al lucore delle stelle.

Entra Tisbe.

Ecco, essa viene, e con la sua disperazione il dramma finisce.

IPPOLITA

Penso che la sua disperazione non sia un grande sproloquio, trattandosi di un Piramo come quello. Mi auguro che finisca alla svelta.

DEMETRIO

Un granello di sabbia potrebbe far pendere la bilancia ora dalla parte di Piramo, ora da quella di Tisbe, per giudicare quale dei due sia il migliore. Lui, come uomo – Dio ci liberi -, e lei, come donna – Dio ce ne scampi!

LISANDRO

Ecco, lei l’ha già visto, con quei suoi occhi dolci.

DEMETRIO

E la sua lamentazione, videlicet

TISBE

Assopito, amor mio?

                               Morto, il mio piccioncino?

                O Piramo, sorgi. Deh parla!

                               Parla, deh parla! Sei muto?

                               Morto, sei morto? Un sepolcro

                dovrà coprire i tuoi dolci occhi.

                               Queste tue labbra di giglio

                               questo tuo naso di ciliegia,

                queste tue guance di primule gialle,

                               morte, son morte!

                               Amanti levate al cielo i vostri lamenti.

                I suoi occhi eran verdi come porri.

                               O voi, trine Sorelle

                               accorrete, a me venite

                con pallide mani di latte.

                               Tuffatele nel sangue

                               voi che tosato avete,

                con le vostre cesoie, il suo filo di seta.

Lingua, non una parola!

                               Vieni, mio ferro fedele,

                vieni, mio brando, trapassami il petto! (Si ferisce.)

E amici miei, addio!

                               Questa è la fine di Tisbe.

                Addio, addio, addio! (Muore.)

TESEO

Il Chiaro-di-luna e il Leone sono stati risparmiati perché seppelliscano i morti.

DEMETRIO

Eh già! E anche il Muro.

ROCCHETTO (levandosi in piedi)

No, credetemi, il muro che separava i loro genitori è abbattuto. (Si alza anche Zufolo.) E ora, messeri, vi piacerebbe vedere l’Epilogo, o sentire una Bergomasca danzata da due della nostra compagnia?

TESEO

Niente Epilogo, vi prego! Il vostro dramma non ha bisogno di giustificarsi. Non ne ha bisogno perché quando gli attori son tutti morti, non c’è più nessuno da biasimare. Per la Santa Vergine, se chi ha scritto il dramma avesse fatto la parte di Piramo e si fosse impiccato con una giarrettiera di Tisbe, sarebbe stata una tragedia coi fiocchi! Ma tale è stata, in verità. Ed anche ben recitata. Ma venga la Bergomasca, e lasciate stare l’Epilogo.

(Entrano Zeppa, Incastro, Beccuccio e Agonia, due dei quali danzano una Bergomasca. Poi escono gli artieri, compresi Zufolo e Rocchetto.)

La lingua di ferro della mezzanotte ha battuto dodici colpi.

Amanti, a letto! È quasi l’ora delle Fate.

Forse domani mattina dormiremo

quanto stanotte abbiam vegliato.

La grossolana rozzezza del dramma ha bene ingannato

l’infingardo passo della notte.

A letto, miei cari. Due settimane ancora durerà questa solennità,

in sollazzi notturni e nuovo sfarzo. Escono.

Entra il Demone.

DEMONE

Or rugge il leone affamato,

ed ulula il lupo alla luna,

e l’aratore russa

di fatica stremato.

Ardon gli ultimi tizzi

mentre stride la civetta

e all’ammalato, nel suo letto

di pena, ricorda il sudario.

È questa l’ora della notte

quando si spalancan le tombe

e via volan gli spiriti

a vagar nel cimitero.

E noi demoni che scortiamo

la pariglia d’Ecate triforme

via dalla corte del Sole,

seguendo l’oscurità come fa il sogno,

ora siamo contenti. Non un ratto

disturberà questa sacra dimora.

Sono stato mandato avanti con la granata

a spazzar la polvere dietro la porta.

Entrano Oberon e Titania, Re e Regina delle Fate, e tutto il Seguito.

OBERON

I nostri bagliori si diffondan nella casa

accanto ai fuochi spenti e sonnolenti.

Ogni elfo ed ogni spirto

come augello dai rovi saltelli

e con me canti la canzone

danzando in punta di piedi.

TITANIA

Prima il canto ripetete a memoria

con gorgheggi ad ogni parola.

Poi tenendoci per mano

con la grazia delle Fate

canterem benedicendo.

(Oberon in testa, le Fate cantano e danzano.)

OBERON

Ogni spirto, fino all’alba,

per la casa vada errando.

Noi andremo a benedire

il gran talamo nuziale.

E la prole procreata

sarà sempre fortunata.

E saranno, le tre coppie,

sempre unite dall’amore.

Mai errori di Natura

colpiranno la lor prole.

Mai voglia o cicatrice

oppur labbro leporino

o magagna sopra il volto,

che alla nascita ognun teme,

sia su alcun di lor progenie.

Ogni Fata corra via

e ogni stanza benedica

con rugiada consacrata.

E il Signore del Palazzo

viva sempre in sicurtà.

Via correte, non sostate,

ed all’alba m’incontrate!

Escono (tutti, eccetto il Demone).

DEMONE (rivolto all’uditorio)

Se noi, ombre, vi abbiamo scontentato,

pensate allora – e tutto è accomodato –

che avete qui soltanto sonnecchiato

mentre queste visioni sono apparse.

Ed il tema, ozioso e vano,

che non più d’un sogno è stato,

signori, vi prego, non venga biasimato.

Se clementi voi sarete

migliori poi ci troverete.

E – parola di folletto –

se alle lingue di serpente

per fortuna siam sfuggiti,

noi faremo presto ammende

– o chiamatemi bugiardo!

Dunque a tutti buonanotte,

e batteteci le mani,

se ora siamo buoni amici.

Ed in cambio, Robertino

metterà tutto a puntino. (Esce.)

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