La commedia degli errori – Atto III

Anche “La commedia degli equivoci”
(“The Comedy of errors” 1590 – 1594)

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Atto I
Atto II
Atto III

Atto IV
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Introduzione al teatro di Shakespeare
Elenco opere teatrali

La commedia degli errori - Atto III

ATTO TERZO – SCENA PRIMA

Entrano Antifolo di Efeso, il suo servo Dromio, Angelo l’orafo, e Balthazar, il mercante.

ANTIFOLO E.

Buon signor Angelo, ci scuserete;

ma mia moglie s’infuria se ritardo.

Che sono rimasto qui, nella bottega,

perché lavoravate al suo monile;

le si può dire, e che lo avrà domani.

Ma ecco qui quel furfante che ha il coraggio

di raccontare che l’ho malmenato,

che lo accusavo di avermi rubato

mille scudi, che non mi ricordavo

di aver casa né moglie… Eri ubriaco?

DROMIO E.

Dite quel che volete, lo so io,

voi mi avete picchiato, e ne ho le prove,

ché se la pelle fosse pergamena,

e i colpi inchiostro, la vostra scrittura

confermerebbe allora ogni parola.

ANTIFOLO E.

Tu sei un bel somaro.

DROMIO E.

Così pare,

con tutte le frustate che mi prendo

e i torti che mi fanno; e lo vorrei,

così risponderei con altri calci,

e voi stareste attento alle mie zampe

gridando “attenti all’asino”…

ANTIFOLO E.

Mi sembra,

che siate triste, signor Balthazar.

Io spero di allietarvi alla mia mensa.

BALTHAZAR

La mensa non importa, è il benvenuto

che mi rallegra.

ANTIFOLO E.

E io conto davvero

che troverete sulla nostra tavola

non solo benvenuti.

BALTHAZAR

Carne e pesce

si possono trovare dappertutto.

ANTIFOLO E.

Ma anche i complimenti, che son fatti

soltanto di parole.

BALTHAZAR

Poco cibo,

tanta allegria: è questa la ricetta

per una festa.

ANTIFOLO E.

Oh sì, se l’invitato

non ha pretese e l’ospite è un po’ avaro.

Io spero accetterete di buon grado

quel che vi offro – niente di speciale,

ma offerto, questo sì, con tutto il cuore.

Un momento: la porta è chiusa. Fai aprire.

DROMIO E.

Nina, Marianna, Betta, Giulia, Rosa!

DROMIO S. [dall’interno]

Bestia, stolto, cappone, idiota, feccia!

Va’ via da quella porta, o almeno taci.

Che vuoi fare, a chiamar tante ragazze,

quando una è già di troppo? Via di lì!

DROMIO E.

Che bestia di portiere! C’è il padrone

fuori in strada che aspetta!

DROMIO S. [dall’interno]

Digli pure

che se ne torni indietro, se non vuole

prendersi freddo ai piedi.

ANTIFOLO E.

Chi è che parla

lì dentro? Presto, aprite questa porta!

DROMIO S. [dall’interno]

Certo, signore, ditemi perché

e io vi dirò allora dove e quando.

ANTIFOLO E.

Quando? Perché? Ma io non ho cenato

DROMIO S. [dall’interno]

E vuole dire che digiunerete.

Tornate un po’ quando siete invitato.

ANTIFOLO E.

Chi sei tu che pretendi di vietarmi

l’ingresso in casa mia?

DROMIO S. [dall’interno]

Sono il portiere,

per oggi, almeno; e il mio nome è Dromio.

DROMIO E.

Anche il nome, villano, mi hai rubato,

non solo il mio lavoro. A ben vedere,

dal primo non ho avuto grande credito,

dall’altro solo biasimo; se oggi

tu fossi stato Dromio al posto mio,

avresti volentieri barattato

nome e faccia con quelli di un somaro.

Entra Luce [in alto].

LUCE

Cos’è questo fracasso? Chi è al portone?

DROMIO E.

Fai entrare il signore.

LUCE

È troppo tardi,

dillo un po’ al tuo padrone.

DROMIO E.

Ti rispondo

con un modo di dire: può infilarsi

qui dentro il mio bastone?

LUCE

Eccoti un altro

modo di dire: prova a indovinare!

DROMIO S. [dall’interno]

Brava Luce, hai risposto proprio bene!

ANTIFOLO E.

Mi senti, ora, sciocchina? E dunque apri!

LUCE

Oh, credevo di avervi già invitato!

DROMIO S. [dall’interno]

E siete voi che avete detto no!

DROMIO E.

E va bene, coraggio. Ah, che bel Colpo!

ANTIFOLO E.

Sgualdrina, fammi entrare!

LUCE

Ah sì? Perché?

DROMIO E.

Su, signore, picchiate a quella porta!

LUCE

Forte, più forte, fino a farvi male!

ANTIFOLO E.

Te ne farò pentire, poi, più tardi,

se butto giù la porta!

LUCE

E perché mai?

C’è una gogna in città, che basta e avanza!

Entra Adriana [in alto].

ADRIANA

Chi è che fa tanto chiasso in casa mia?

DROMIO S. [dall’interno]

Questa vostra città, per dire il vero,

è infestata da un sacco di bricconi.

ANTIFOLO E.

Sei arrivata, moglie? Finalmente!

ADRIANA

Vostra moglie, pezzente? Andate via!

[Esce con Luce.]

DROMIO E.

Ma se voi ubbidite, mio padrone,

cosa resta da fare a un servitore?

ANGELO

Io non vedo una mensa, o un benvenuto.

BALTHAZAR

Si è discusso qual fosse più importante,

fra le due cose, ed ora a mani vuote

eccoci qua.

DROMIO E.

Signore, i vostri ospiti

stanno ancora aspettando il benvenuto.

ANTIFOLO E.

C’è qualcosa nell’aria, che ci blocca

qui sulla soglia.

DROMIO E.

Voi parlate d’aria,

con le vesti leggere che indossiamo?

Dentro c’è un pasto caldo, e voi qui fuori

restate al freddo: un uomo può infuriarsi

come una bestia a vedersi trattare

in questo modo!

ANTIFOLO E.

Portami qualcosa,

riusciremo a spaccare il chiavistello!

DROMIO S. [dall’interno]

Sì, spacca tutto, e io ti rompo la testa!

DROMIO E.

Cominciamo col rompere il silenzio,

ché le parole sono fatte d’aria:

meglio con il davanti che col retro!

DROMIO S. [dall’interno]

Sei tu che finirai tagliato a pezzi!

E per l’ultima volta, via di qua!

DROMIO E.

Ecco, l’hai detto per l’ultima volta,

e dunque fammi entrare.

DROMIO S. [dall’interno]

Certamente,

quando gli uccelli non avran più penne,

e i pesci non avranno più le pinne!

ANTIFOLO E.

Basta, al lavoro. Dammi un grimaldello.

DROMIO E.

Ma che sarebbe? Un pesce o un uccello?

Se è un pesce, via, togliamogli le pinne,

se è un uccello spenniamolo; e allora

chissà che non riusciamo ad accordarci.

ANTIFOLO E.

Va’, presto. Io ti ho detto un grimaldello,

una sbarra di ferro. Corri, via!

BALTHAZAR

Pazienza, mio signore; non così.

Ci rimettete la reputazione,

e attirate sospetti sull’onore

di vostra moglie, mai fin qui discusso.

In breve, voi avete già esperienza

di quanto virtuosa sia, e modesta;

dev’esserci un motivo a voi ignoto,

e senza dubbio lei saprà spiegarvi

perché troviamo la porta sbarrata.

Ora ascoltate: andiamo via di qui,

a pranzo, alla Taverna della Tigre;

poi, verso sera, verrete da solo

a chiedere ragione del mistero.

Se riuscite a buttare giù la porta,

in pieno giorno, davanti alla gente,

che commenti malevoli, che lazzi

volgari ci farebbero i passanti!

Le calunnie poi circolano, rovina

delle reputazioni intemerate;

vi seguono insidiose nella tomba

d’una generazione all’altra; la menzogna

non lascia più la casa ove s’insedia.

ANTIFOLO E.

Avete vinto. Me ne andrò in silenzio,

e cercheremo a dispetto di tutto

di finir la giornata in allegria.

Conosco una ragazza assai socievole,

di bell’aspetto, e anche spiritosa,

un po’ selvaggia, eppure gentilissima;

pranzeremo da lei. Questa ragazza,

mia moglie spesso mi rimproverava

di frequentarla; e giuro, fino a oggi,

non era vero affatto. [Ad Angelo] Andate a prendere

quel monile, che ormai sarà finito;

e portatelo poi al Porcospino:

è là che vive. Voglio regalarglielo,

non foss’altro che per fare un dispetto

a mia moglie. Signore, fate presto.

Se a casa mia mi trattano così,

troverò qualcun altro che mi accolga.

ANGELO

D’accordo, ci sarò, fra circa un’ora.

ANTIFOLO E.

Grazie. Potrà costarmi, questo scherzo.

Escono.

ATTO TERZO – SCENA SECONDA

Entrano Luciana e Antifolo di Siracusa.

LUCIANA

Può essere tu abbia già scordato

quali siano i doveri di un marito?

Così presto sfiorisce, dunque, Antifolo,

l’amore appena dati i primi frutti?

Così invece di accrescersi rovina?

Se hai sposato Adriana per denaro,

almeno pei suoi beni usa un riguardo;

se ami un’altra, allora fingi un poco,

dissimula il tuo amore in qualche modo;

che mia sorella non ti legga in viso

il tuo segreto, o che la lingua stessa

non ti tradisca; parla con dolcezza,

guardala con affetto, il vizio occulta

dietro apparenza di virtù; la maschera

sia sempre amabile, per quanto nero il cuore;

e di candore ammanta i tuoi peccati.

Quale bisogno c’è che lei lo sappia?

Quale è il ladro che ostenta i suoi misfatti?

Sarebbe doppio crimine tradirla

la notte e rivelarlo a colazione.

La vergogna può essere onorata

senza alcun fondamento, se si è accorti

ma il male che ci fanno si raddoppia

con parole offensive. Ahimè, a noi donne,

basta poco per renderci contente:

ci dite che ci amate, e date a un’altra

il vostro braccio; a noi basta la manica.

Continuiamo a girare, poverette,

dentro l’orbita vostra; voi potete

farci muovere a vostro piacimento.

Rientra in casa, cognato, sii cortese,

e mostra a mia sorella un po’ d’affetto;

non è un delitto fingere, se la dolcezza

consente di arrivare a un po’ di pace.

ANTIFOLO S.

Signora, io non conosco il vostro nome,

né so per qual miracolo sappiate

come mi chiamo io. Ma il vostro fascino

e la vostra saggezza vi rivelano

più divina che umana: questo so.

Ditemi voi quello che devo fare,

quel che devo pensare; il mio sentire

è grossolano, avvolto negli errori

di una natura debole, terrena,

superficiale: perché mai cercate

di innalzarlo a dispetto dei suoi limiti,

in un regno per me del tutto incognito?

Forse siete una dea? Forse potete

insegnarmi a rinascere? D’accordo,

trasformatemi; io a questo non mi oppongo.

Ma finché io rimango quel che sono,

rifiuto quella donna lamentosa,

vostra sorella, come moglie; a lei

non devo nulla; e certo nel suo letto

non entrerò, ché è solo a voi che penso.

Non indurmi, sirena, col tuo canto

ad affogare nel mare di lacrime

di quella donna; canta per te stessa,

e ti amerò. Quei tuoi capelli d’oro

sciogli sui flutti argentei; in questo letto

fra le tue braccia io sarò felice

di giacere, sapendo che la morte

è conquista gloriosa e appagamento.

E l’amore, se è effimero e se è beve,

si estingua pure, se a me verrai meno.

LUCIANA

Ma tu sei pazzo! stai farneticando!

ANTIFOLO S.

Pazzo d’amore, certo. Non so come.

LUCIANA

È una follia che nasce dai tuoi occhi.

ANTIFOLO S.

Perché ho guardato il sole da vicino.

LUCIANA

Fissa altrove il tuo sguardo, e rinsavisci.

ANTIFOLO S.

Tanto varrebbe che chiudessi gli occhi

e fissassi le tenebre.

LUCIANA

Perché

dici d’amarmi? Dillo a mia sorella!

ANTIFOLO S.

A sua sorella!

LUCIANA

Dunque a lei!

ANTIFOLO S.

Oh, no!

è a te che penso, a te che dei miei occhi

sei la pupilla, il cuore del mio cuore;

quel che mi nutre, quel che spero e bramo.

mio cielo in terra, vero paradiso…

LUCIANA

È a mia sorella che dovresti dirlo.

ANTIFOLO S.

Prendi tu stessa il nome di sorella:

sono parte di te, ti amerò sempre.

Non hai marito ancora, io non ho moglie;

dammi la mano.

LUCIANA

Aspettami un momento:

chiediamo a mia sorella se è d’accordo. Esce.

Entra Dromio di Siracusa.

ANTIFOLO S.

Come mai, Dromio, corri così svelto?

DROMIO S.

Mi conoscete, allora? Sono Dromio? E vostro servo? sono io? me stesso?

ANTIFOLO S.

Ma sì, sei Dromio, il mio servo, te stesso.

DROMIO S.

No, sono un asino; non appartengo a me, ma a una donna; sono fuori di me.

ANTIFOLO S.

Fuori di te? Di quale donna parli?

DROMIO S.

Altro che fuori di me, signore! Pare che io sia proprietà di una donna, che sostiene di avere diritti su di me, e mi ossessiona; finirà per mangiarmi in un boccone.

ANTIFOLO S.

Quali diritti accampa su di te?

DROMIO S.

Quelli che voi accampate sul vostro cavallo, né più né meno; e mi corre dietro come una bestia – voglio dire, non è che lei mi voglia perché sono una bestia: la bestia è lei, e a tutti i costi mi vuole per sé.

ANTIFOLO S.

Ma chi sarebbe?

DROMIO S.

Ah, persona di tutto rispetto: qualunque cosa si dica di lei, bisogna sempre premettere “con rispetto parlando”. È una ben scarsa fortuna quella che mi aspetta, anche se a ben vedere si tratta di un matrimonio ricco e succulento.

ANTIFOLO S.

In che senso, succulento?

DROMIO S.

Nel senso che lei è la sguattera di cucina, tutta unta di grasso; in mancanza d’altro posso sempre utilizzarla come lampada a olio e illuminarmi la via per scappare più in fretta. Garantisco che i suoi stracci imbevuti di sego riscalderebbero la povera Polonia per tutto l’inverno. E se vive fino al giorno del giudizio, continuerà a bruciare almeno una settimana più a lungo di tutto il resto del mondo.

ANTIFOLO S.

Ma a vederla, che aspetto ha?

DROMIO S.

È scura in faccia come le mie scarpe, ma certo non altrettanto pulita. Perché? Perché lei suda tanto che nel suo liquame si affonda fino alle caviglie.

ANTIFOLO S.

Per questo basterebbe un po’ d’acqua e sapone.

DROMIO S.

No, signore, ce l’ha nella pelle: non basterebbe il diluvio di Noè.

ANTIFOLO S.

Come si chiama?

DROMIO S.

Nellina, signore; ma bisognerebbe dire Nellona. Un metro e tre quarti non sarebbero sufficienti a misurare il suo giro di fianchi.

ANTIFOLO S.

Dunque una creatura di una certa stazza?

DROMIO S.

Non più lunga dalla testa ai piedi che da un fianco all’altro. Perfettamente sferica, come il globo. Volendo, ci si può studiare la geografia, ché ci si trovano tutti i paesi del mondo.

ANTIFOLO S.

In quale parte del suo corpo si trova l’Irlanda?

DROMIO S.

Ah, signore, in fondo alla schiena. Ci sono certi acquitrini…

ANTIFOLO S.

E la Scozia?

DROMIO S.

Nel palmo della mano, arido e roccioso com’è.

ANTIFOLO S.

La Francia?

DROMIO S.

Nella fronte, tutta una pustola, in guerra contro i pochi capelli che ha in testa.

ANTIFOLO S.

E l’Inghilterra?

DROMIO S.

Ho cercato qualcosa di bianco che somigliasse a una scogliera, ma non ho trovato niente del genere. Ma dovrebbe trovarsi dalla parte del mento, visto che vi cola un canale d’acque salate simile a quello che ci divide dalla Francia.

ANTIFOLO S.

La Spagna?

DROMIO S.

Mi dispiace, non l’ho vista, ma ne ho sentito anche troppo l’odore nel suo alito.

ANTIFOLO S.

Ci sono anche l’America, le Indie?

DROMIO S.

Come no, padrone: nel suo naso, ricco di rubini, diamanti, zaffiri, cadenti a pioggia nella calda cavità della Spagna, la quale dal canto suo manda intere flotte di galeoni a far bottino nelle sue narici.

ANTIFOLO S.

E che mi dici del Belgio, dei Paesi Bassi?

DROMIO S.

Ah, signore, così in basso non ho avuto il coraggio di guardare. Ma per concludere, questa megera, che deve pur conoscere un po’ di arti divinatorie, non solo mi reclama per sé, ma mi chiama Dromio, giura che ho promesso di sposarla, mi ha elencato con precisione certe caratteristiche delle mie parti intime, il segno che ho sulla spalla, il neo sul collo, la verruca sul braccio sinistro – tanto che, terrorizzato, sono fuggito da lei come fuggirei da una strega:

Non fosse per la fede che ho nel cuore, tosto

mi avrebbe trasformato in cagnolino,

e mi avrebbe legato giù in cucina,

a girare ben bene il girarrosto.

ANTIFOLO S.

Corri via, presto, allora, verso il porto,

e guarda un po’ se il vento è favorevole.

Io non resto qui a Efeso stanotte.

Se c’è un battello pronto per salpare,

vieni al mercato a dirmelo, ti aspetto

da quelle parti. Tutti ci conoscono,

ed a noi tutto è ignoto: sarà meglio

non perder tempo e andarcene di qui.

DROMIO S.

Fuggo a gambe levate da un orso per salvarmi

così da quella che mi sta addosso per sposarmi. Esce.

ANTIFOLO S.

Questa è città di streghe, di misteri:

è dunque tempo che la lasci. Quella

che mi chiama marito, la detesto

con tutta l’anima; invece la sorella,

piena com’è di grazia e di parole

dolci e suadenti, mi ha quasi portato

a tradire me stesso. Ma non voglio

macchiarmi di una colpa di tal genere;

non udrò più quel canto di sirena.

Entra Angelo con il monile.

ANGELO

Ecco, signor Antifolo.

ANTIFOLO S.

È il mio nome.

ANGELO

Lo so bene, signore, e qui vi porto

quel monile che prima al Porcospino

dovevo consegnarvi, ma non era

finito ancora.

ANTIFOLO S.

Che ne dovrei fare?

ANGELO

Quel che volete; io l’ho fatto per voi.

ANTIFOLO S.

Per me, signore? Io non l’ho ordinato.

ANGELO

Non una volta o due, ma almeno venti!

Ora potete darlo a vostra moglie,

che ne sarà contenta; e questa sera

verrò a trovarvi, e voi mi pagherete.

ANTIFOLO S.

Meglio per voi riscuotere all’istante;

più tardi non vedreste né il gioiello

né il denaro.

ANGELO

Il signore scherza sempre.

A più tardi. Esce.

ANTIFOLO S.

Non so cosa pensare.

Ma nessuno sarebbe tanto sciocco

da rifiutare un regalo del genere.

Gli uomini, qui, non debbono sforzarsi

a lavorare; trovano per strada

doni d’oro e d’argento. Me ne vado

al mercato, per incontrare Dromio;

poi, col primo battello, via di qua. Esce.

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