Amleto: la tragedia del linguaggio e la grande modernità di Shakespeare

di Mattia Bonasia

“The Merchant of Venice”, una delle opere teatrali più rappresentate nei teatri di tutto il mondo, va letta almeno due volte. Infatti se ci si limita alla prima, si ha netta l’impressione di un forte antisemitismo. Alla seconda invece, mettendosi a leggere il testo tra le righe, cioè andando al di là delle parole, l’impressione è di un certo anticristianesimo, soprattutto nei confronti della sua variante cattolico-romana: non a caso la commedia viene ambientata a Venezia e non a Londra, dove pur gli ebrei erano presenti al tempo di Shakespeare.

da Auralcrave

Amleto: la tragedia del linguaggio

L’Amleto, scritto tra il 1600 e il 1602 , è la massima espressione del periodo più fortunato di William Shakespeare, in cui l’autore inglese scrive le sue opere più importanti. La più celebre tragedia shakesperiana si pone come immagine di quel periodo conflittuale che è il Rinascimento inglese nell’età elisabettiana: il sostrato medievale si scontra con le nuove istanze di pluralità, di dinamicità, di modernità, provenienti dal continente europeo e soprattutto dalla nostra Italia. Si tratta della crisi del vecchio mondo, un’età di transizione che il poeta di Stratford vuole esprimere così com’è, senza veicolare messaggi morali; lo stile è ben rappresentato dal seguente passo, in cui Amleto risponde meravigliosamente a Rosencrantz e Guildenstern:

“Va ora necessariamente al passo con il mio stato interiore che questo involucro così bello, la terra, sembri a me uno sterile promontorio, che questa splendida volta celeste, l’aria, badate, questo meraviglioso firmamento incombente, questo tetto maestoso adornato di dorato fuoco, ebbene, esso non appare altro a me che un sudicio e mortale assembramento di vapori.”

Il personaggio di Amleto, principe di Danimarca, nella sua ricerca della verità circa l’assassinio del padre, porta avanti l’indagine dell’uomo nuovo empirico in un mondo out of joint, un mondo in cui “la virtù stessa deve chiedere perdono al vizio, sì, inchinarsi e corteggiarlo per il permesso di fargli del bene”. Protagonista è davvero l’immagine dell’uomo moderno: egli non si fida ciecamente delle affermazioni dello spettro-padre (che gli confessa di essere stato assassinato dal fratello Claudio, ora marito della regina ed ex-moglie Gertrude), non riesce a portare avanti senza dubbi la propria vendetta (la parola question è la più presente nel dramma, ripetuta per ben 17 volte), in quanto paralizzato, immobile in un angosciante limbo tra essere (agire) e non essere (adattarsi alla realtà), in fondo come egli stesso afferma: “Che cos’è un uomo se il suo principale impiego del tempo a propria disposizione non è altro che dormire e rimpinzarsi? Una bestia, nulla più”.

Come scrive Nietzsche in Nascita della tragediaAmleto ha gettato uno sguardo nell’essenza delle cose e ne ha scoperto il nulla abissale; di qui deriverebbe la sua nausea nei confronti dell’azione e il suo continuo trincerarsi dietro a pensieri sulle ragioni dell’agire, in quanto la sua azione stessa nulla muterebbe nell’essenza eterna delle cose. Il protagonista stesso afferma nel suo più celebre monologo:

“Essere o non essere, questa è la domanda […]. Morire, dormire; dormire, forse sognare… sì, ecco l’ostacolo: poiché, in quel sonno di morte, quali sogni possano arrivare, una volta liberatici da questo mortale tumulto è un pensiero che deve arrestarci… questa è la considerazione che rende così lunga la vita alla calamità.    […] Chi sopporterebbe i fardelli per grugnire e sudare sotto il peso di una vita esausta, se il terrore di qualcosa dopo la morte, quella terra sconosciuta, dai cui confini nessun viaggiatore ritorna, non confondesse la volontà, facendoci sopportare i mali che abbiamo piuttosto che volare verso altri che non conosciamo?”

Amleto è totalmente estraneo al mondo di personaggi che si succedono davanti ai suoi occhi, egli è infatti il personaggio shakesperiano che fa più uso della comunicazione obliqua con il pubblico:

“Quanto stancanti, trite, monotone, vane appaiono a me tutte le usanze di questo mondo! Vergogna, vergogna!”

La paralisi di Amleto è proprio data dal nuovo contesto, dal non poter stabilire con certezza l’esistenza di un Dio. La grandezza di Shakespeare sta proprio qui: egli individua nel dubbio l’unica condizione “stabile” della modernità, solo in questo stato l’uomo nuovo potrà vivere. Lo stesso incitamento che il protagonista fa di continuo a se stesso per portare avanti la vendetta, altro non è che una paralisi della volontà: la vittima-padre, essendosi presentata in abiti militari, testimonia il fatto che il proprio omicidio sia solo l’ultimo di una lunga serie di crimini, d’altro canto rinunciare alla vendetta equivalerebbe a patire l’esclusione da un mondo che la considera alla stregua di un dovere sacro.

L’uomo moderno quindi non riesce più a identificarsi col passato: Amleto cerca di interpretare inizialmente la parte dell’eroe classico, ma non può farlo. Allo stesso modo la follia di Ofelia è dettata dall’istruzione cortigiana del padre Polonio, non più adatta a interpretare la realtà: ella non è infatti preparata all’amore, all’interpretazione, ma solo alla cieca obbedienza alle parole del padre, proprio per questo crederà pazzo il principe di Danimarca, come suggeritole da Polonio, e segnerà via via la tragedia di se stessa, che la porterà, priva di una guida, alla follia vera e propria, con evidente contrapposizione con la follia fittizia di Amleto. Polonio diviene dunque immagine del vecchio mondo, della mancanza di spirito di indagine, egli stesso afferma:

“E così noi, con saggezza e capacità preventiva, con vie traverse e prove indirette, attraverso raggiri troveremo la giusta soluzione.”

Egli è un uomo che non si pone questioni sulla realtà:

“Commentare di che natura dovrebbe essere la maestà, che cosa sia il dovere, perché il giorno sia giorno, la notte sia notte, ed il tempo sia il tempo, non sarebbe altro che perdere il giorno, la notte e il tempo.”

I tempi sono dunque talmente out of joint che Amleto cerca di rimetterli in sesto tramite la follia, maschera usata per smascherare tutte le altre maschere, maschera usata per smascherare il teatro stesso. Il teatro nel teatro (ereditato dalla Spanish tragedy di Kid) si rivela come mezzo basilare per demistificare la realtà (il tema del teatro nel teatro è sempre presente in Shakespeare, fin dal Sogno di una notte di mezza estate), uno strumento che ci rende consapevoli del bene e del male, non certo un mero divertissment barocco. Non per altro la recita de L’assassinio del duca di Gonzago rappresenta il massimo culmine della tensione narrativa, che dà inizio alla fase centrifuga del dramma, col moltiplicarsi degli elementi catastrofici.

Ma se “c’è qualcosa di marcio in Danimarca”, questo qualcosa è percepibile soprattutto nel linguaggio: l’intera ricerca empirica del protagonista sarà proprio volta alla demistificazione della parola falsa (esemplificativi sono i dialoghi con Polonio), alla ricerca di quella vera, del logos. Nel dialogo con lo spettro-padre Amleto afferma:

“Dalla superficie della mia memoria asciugherò tutti i banali, stupidi ricordi, tutti i proverbi dei libri, tutte le forme, tutte le impressioni passate che l’osservazione e la giovinezza vi hanno ricopiato, ed il tuo comandamento solo vivrà all’interno del libro e del volume del mio cervello, non mescolato a materia più vile.”

Ma Amleto morirà rassegnato durante la propria ricerca: egli non può rimettere in sesto quel mondo, ma lascia la nuova vera parola a Orazio, ovvero al pubblico stesso, a noi uomini nuovi, in un finale che sembra apparentemente riconciliatorio ma in cui in realtà Fortebraccio e Orazio restano soli, immobili, nel dubbio di un mondo senza nessuna certezza, senza nessun assoluto, senza nessun Dio.

La tragedia shakespeariana si pone così come immagine della realtà, una realtà multiforme rappresentabile solo attraverso un’opera aperta che non segue le unità della rappresentazione teatrale classica e non si può descrivere sotto alcun genere predefinito e che anzi fugge dai generi spezzando ogni barriera preesistente tra tragedia e commedia, in quanto è ormai impossibile rimanere all’interno di un genere codificato.

La multiformità della realtà accomuna l’Amleto alle altre due grandi tragedie dell’artista inglese: Macbeth e OthelloMacbeth è un’opera conflittuale, in cui la follia del protagonista nasce proprio dalla malattia del linguaggio indagata nell’AmletoMacbeth non riesce infatti a tradurre il mondo-testo e viene sviato dalle false affermazioni delle streghe (come in tutto il teatro shakesperiano però, il fantastico è solo un mezzo, non c’è niente di non immanente, anche Macbeth rappresenta l’uomo nuovo e le streghe sono solo lo specchio della sua volontà), e della moglie Lady Macbeth che crea una sorta di realtà alternativa senza decifrare la realtà vera e propria. La tragedia del linguaggio è presente nelle stesse parole del protagonista che passa da un linguaggio realistico, aderente alla realtà, a un linguaggio sconclusionato, formato da allucinazioni e versi informi.

La degradazione del linguaggio è il filo che lega le due opere all’Othello: qui il protagonista passa tramite la sua crisi interiore da un linguaggio classico, pomposo (così tanto auto-drammatizzato, però, da far trasparire una certa insicurezza di fondo data dalle sue origini “barbariche”), ad uno appunto barbarico, composto in sostanza unicamente da versi. Questa trasformazione è opera del “serpente” Iago, che crea nel protagonista il dubbio attraverso un linguaggio tutto terreno, che sembra riportare tutto alla realtà. Di fatto la caduta di Othello inizia proprio nel momento in cui il linguaggio del moro si trasforma in quello di Iago, in quanto anche lui, proprio come Amleto, vuole interpretare la parte dell’eroe classico, cosa ormai impossibile nel mondo moderno.

L’incredibile modernità della massima tragedia shakesperiana l’ha ovviamente portata a numerose rappresentazioni anche in ambito cinematografico. Anche se è vero che le opere più fedeli e probabilmente meglio riuscite sono le versioni di Kenneth Branagh del 1996 e quella di Laurence Olivier del 1948, in questo articolo vi consigliamo un film diverso, che reinterpreta l’opera nei tempi moderni, restando fedele ai dialoghi originali: Hamlet 2000 (2000) di Michael Almereyda. Il film, per intenderci, parte dalla stessa ispirazione del ben più celebre Romeo + Juliet (1996) di Buz Luhrmann, liberandosi però dal barocchismo post-moderno del regista australiano per mettere l’accento sul senso che i temi di Shakespeare hanno in un mondo in cui siamo tutti interconnessi e in cui le macchine iniziano a entrare nella nostra vita di tutti i giorni: Amleto dunque porta avanti la sua indagine con una telecamera, il teatro nel teatro viene sostituito dal cinema nel cinema (forse nuovo specchio interpretativo della realtà?) e le spade vengono sostituite dalle pistole.

Per tutti questi motivi l’Amleto è l’opera più incredibilmente moderna di Shakespeare: un lettore di oggi si identifica perfettamente nel dramma del principe di Danimarca, capisce la sua “parola”, una parola nuova che Shakespeare consegna al suo pubblico perché tenti di leggere il reale e di riscrivere il mondo, un mondo in cui:

“Cesare imperiale, morto e ridivenuto argilla, potrebbe tappare un buco per tenere lontano il vento.”

Mattia Bonasia

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