1598/1599 – Enrico V

(“Henry V” – 1598 – 1599)

Traduzione di Andrea Cozza

Introduzione – Riassunto
Atto I
Atto II
Atto III
Atto IV
Atto V

Introduzione al teatro di Shakespeare
Elenco opere teatrali

Enrico V

Introduzione

Con l’Enrico V, scritto e rappresentato nel 1599, il ciclo dei drammi storici di Shakespeare è pressoché concluso. Prima erano apparsi: le tre parti dell’Enrico VI (1588-92); il Riccardo III(tra il 1591 e il ’94); Riccardo II (1595); Re Giovanni (tra il 1590 e il ’97); e le due parti dell’Enrico IV (tra il 1596 e il ’99). L’ultima tessera del mosaico, l’Enrico VIII, apparirà nel 1613: si dice che Shakespeare lo abbia scritto su espressa richiesta della corte d’Inghilterra, quando già il drammaturgo aveva dato l’addio alle scene. Evidentemente, anche i contemporanei di William Shakespeare (1564-1616) si rendevano conto della importanza, anche ideologica, del grande affresco che il drammaturgo aveva a poco a poco realizzato.
Molti dei drammi storici shakespeariani si svolgono nel XV secolo, l’epoca in cui l’antica nobiltà feudale si autodistruggeva in una sanguinosa guerra di successione (la guerra “delle due rose”), mentre la monarchia assoluta si veniva affermando, con il sostegno iniziale di una nuova classe di proprietari terrieri e di una borghesia mercantile in rapida ascesa. L’Inghilterra imboccava con decisione la strada che avrebbe condotto, alcuni secoli più tardi, alla nascita del capitalismo. Shakespeare rappresenta questo complesso momento storico mettendo in scena la vita e le imprese di alcuni sovrani. Al drammaturgo, naturalmente, non interessa fornire una versione oleografica della storia patria. Egli condivide il modo di pensare diffuso nella sua epoca, e perciò ritiene che, per la nazione, la cosa migliore sia essere guidata da un monarca forte, leale, saggio, generoso e giusto, che goda dell’appoggio e dell’ubbidienza dell’intero popolo. Ma è significativo che questo ideale perlopiù non si trovi realizzato nei drammi storici di Shakespeare.

Anche quando il re non è un debole come Riccardo II o una canaglia come Riccardo III, il regno è travagliato da guerre civili, congiure, ribellioni; il potere del sovrano è precario e instabile, spesso nasce dall’usurpazione o è da essa minacciato. La visione della storia che ne risulta è prevalentemente cupa, pessimista (o forse solo realistica). L’unica eccezione sembra essere costituita dal regno di Enrico V. Questo sovrano, che regnò fra il 1413 e il 1422, è presentato da Shakespeare come un modello di virtù (anche nel senso di Machiavelli). Il trono di Francia gli spetta per successione dinastica; per ottenerlo, Enrico attraversa la Manica con il suo esercito (è un episodio della guerra dei Cent’anni), non senza aver sventato una congiura di nobili al soldo della Francia. S’impadronisce della città di Harfleur senza colpo ferire, ed ottiene una brillante ed insperata vittoria ad Agincourt, dove le armi di Francia sono sbaragliate dal numericamente esiguo esercito di re Enrico; il tutto con grande stupore della corte francese, che confidando nella superiorità indiscussa dei propri cavalieri sontuosamente addobbati, aveva considerato con sufficienza il manipolo di “straccioni” guidato dal re inglese. Tornato in patria, Enrico V, durante le trattative di pace col re di Francia, riesce a conquistare anche l’amore della figlia di quest’ultimo, la principessa Caterina: la pace fra i due paesi sarà suggellata dal matrimonio fra Enrico e Caterina, che unisce le due dinastie. Il protagonista di questo dramma era già apparso nell’Enrico IV, dove era un giovanotto di belle speranze (principe ereditario), amante della gozzoviglia e della crapula, assiduo frequentatore di taverne d’infimo ordine assieme a John Falstaff e ad altri popolani, suoi compagni di goliardia. Diventato re, Enrico ha “messo la testa a posto”, ma del suo periodo goliardico ha conservato la familiarità con le classi popolari. La notte che precede la battaglia di Agincourt lo vediamo visitare in incognito gli accampamenti del suo esercito, per sondare il morale delle truppe (e non tutto ciò che gli dicono i suoi soldati è per lui lusinghiero).
Questa celebrazione dell’assolutismo monarchico in chiave nazional-popolare avrebbe potuto risolversi in un’opera di mera propaganda. Shakespeare, nonostante la sua sostanziale adesione all’ideologia dominante, riesce ad evitare un tale esito, aprendo anzi geniali “squarci” di realtà storica, fin dalla prima scena del primo atto: è l’Arcivescovo di Canterbury a convincere Enrico V ad intraprendere la sua spedizione in Francia, perché c’è il concreto rischio che la monarchia, a corto di fondi, decreti l’espropriazione dei beni ecclesiastici… molto meglio una bella guerra di conquista, specie se fondata su “giuste” ragioni di diritto.

Ora prosperano gli armaioli e in ogni petto / Regna soltanto il pensiero dell’onore

(Atto II, Coro, vv. 3-4).

I Cori di questo dramma sono un ulteriore motivo d’interesse, in quanto in essi si trovano alcune significative dichiarazioni di poetica teatrale, valevoli per tutta l’opera di Shakespeare. Come può la finzione scenica rappresentare la realtà?

Può questa misera arena contenere i vasti / Campi di Francia? E possiamo, questa O di legno, / Inzepparla pur dei soli cimieri che atterrirono l’aria / Ad Agincourt?

(Atto I, Coro, vv. 11-14).

Shakespeare rifiuta il falso realismo delle tre regole aristoteliche – unità di tempo, di luogo, di azione – e chiede direttamente alla fantasia dello spettatore di collaborare alla creazione dell’opera:

Rimediate / Coi vostri pensieri alle nostre imperfezioni: dividete / Un solo uomo in mille parti e create / Un’armata immaginaria. […] / sono i vostri pensieri che ora / Debbono addobbare i nostri re, portarli / Di qua e di là, scavalcando i tempi, chiudendo / Le gesta di molti anni nel giro di una clessidra.

(Ibid., vv. 23-25, 28-31).

Apologia del Re, di un Re. Apologia dell’Inghilterra in cinque atti. Torniamo indietro rispetto a Riccardo III.

Primo ventennio del XV secolo. In perfetta sincronia con la più lineare tra le epopee di tipo classico, ogni elemento s’incastra a perfezione in un più grande mosaico, finalizzato all’elogio sublime e supremo della terra d’origine. Re Harry è il centro-boa di una vasca di versi armati per un impatto frontale, affrescati di riferimenti e ironie storiche, ma pur sempre di stampo guerresco e cavalleresco. Il Re è la consacrazione di una fase epica decisiva per le sorti d’Europa dei secoli a venire, o quanto meno per le sorti dei binari su cui le genti d’Europa si troveranno instradate. Se non lo è, sicuramente lo sarebbe nelle intenzioni dell’Autore, dei patrocinatori e delle loro mire.

Il dramma di Shakespeare è di fatto e a tutti gli effetti la storia della battaglia di Agincourt, combattuta in terra di Francia nell’ottobre dell’anno del Signore 1415. Il significato apologetico nazionale è così evidente da ricalcare le orme autocelebrative di Cesare durante l’assedio di Alesia. I riferimenti terminologici (Gallia spesso al posto di Francia) sono lampanti e le intenzioni non sono da meno. Lo si capisce in altra chiave anche alla fine, quando alla campagna guidata da un re non completamente in buona fede (legge salica ed eredità delle corona d’Inghilterra) si dà un significato pacificatore e unificatore. La differenza è nel mezzo falso storico che incombe di continuo sui dati (il numero reali di inglesi schierati da diecimila diventa cinquemila, confortando l’epicità del dramma), e comunque sulle asimmetrie caratteriali e motivazionali affibbiate in modo didascalico ai due schieramenti. Così si continua lungo una scala che avviluppa in senso ciclico tutti gli elementi necessari alla documentazione storica di una necessità d’amalgama, pace e prosperità, di cui Enrico V sembra erede suo malgrado. In sostanza Enrico V è la resurrezione morale di un ex sfaccendato salito alla ribalta dei doveri storico esistenziali, propri di chi incarna le vesti morali degne dei gonfaloni, degli araldi e della missione di una grande Nazione. È il Re che rappresenta il paradigma profondo entrato nell’iconografia collettiva più classica antesignana delle attuali credenze relative alla “perfida Albione”. Il simbolo della rinascita nazionale o meglio della nascita definitiva e dell’assunzione di consapevolezza. Già al primo atto i dubbi sono fugati. Non c’è spazio per ripensamenti; la missione è stabilita. Le imprese ricordate degli avi in terra di Francia (il principe Nero, Edoardo di Galles) come richiamo al volere prossimo ne sono testimoni.

L’ardore di pochi, stanchi, arditi, affamati, lisi contrapposto ai molti affettati, belli e piumati e drammaticamente poco guerreschi ne connotano il senso (lo spunto ripreso da Orwell e Churchill è evidente). Il fatto che nell’Enrico V tutto sia strumentale ne deriva automaticamente. Hanry il Plantageneto funge da fulcro per una visione globale di un’apologia straordinaria. Un terzo dei versi spetta a lui. Dalla dichiarazione di intenti, al campo di battaglia; dalle sue vocazioni “sociali” (accetta di essere apostrofato e sfidato dal soldato Williams) contrapposte alla noblesse spocchiosa e classista dei francesi, alla corte finale a Caterina di Valois (1401-1431) figlia dello sconfitto Re Carlo di Francia. Tutto è cucito su di lui, da lui per la prosperità del futuro regno unito tra Inghilterra e Francia.
Da Enrico V e Caterina nascerà Enrico VI. La mollezza degli eredi e la vacuità dei presagi sarà oggetto di altre analisi. Il libro scorre come può farlo un dramma epico. Il ritmo dei versi, cadenzato dal tamburo e dalle trombe, appare da subito meno complesso nelle sue chiavi di lettura di altri lavori e proprio per questo in alcuni momenti meno disposto a farsi digerire. La riflessione umana è enorme ma supina alla inquadratura storica e finalistica di un dovere collettivo.

La grande spinta individuale di cui gode autonomamente l’Enrico protagonista sembra quasi impersonale a fronte di obiettivi tanto supremi. Sembra di scorrere lungo i lineamenti rozzi e soldateschi di un Re necessario, per respirarne uno strano e contagioso senso di protezione diffuso. Oltre le pagine; oltre le parole e i riferimenti. Il tutto si legge e si ammira con consapevole soggezione alla maestosità delle gesta. Ci si lascia coinvolgere con sete crescente fin dentro la bruma fangosa del suolo francese.

Riassunto

da Wikipedia

Il coro introduce la storia che sta per rappresentarsi sul palcoscenico, scusandosi con gli spettatori per l’impossibilità di rendere veritiera la rappresentazione causa gli scarsi mezzi di cui possiede il teatro: il coro prega così gli astanti di mettere in moto la propria immaginazione, al fine di ricostruire con la mente ciò che non è possibile portare in scena. Ogni atto è preceduto da un prologo del coro, interpretato però da un solo attore.

Atto primo
La scena si apre con il colloquio tra l’arcivescovo di Canterbury ed il vescovo di Ely, preoccupati che l’approvazione di un disegno di legge potesse togliere alla Chiesa parte dei sussidi e delle agevolazioni su cui vive agiatamente. Suggeriscono così al re Enrico V di dichiarare guerra alla Francia, rivendicandone i diritti sul trono che gli spettano poiché la successione francese è avvenuta contravvenendo la legge salica, ossia per via femminile. Enrico V, che in passato era un giovane dedito al gioco e ai bagordi, è nel frattempo divenuto un re saggio e amato. Sentito il consiglio dei due ecclesiastici decide di dichiarare guerra al re di Francia Carlo VI, al quale ha già inviato varie missive nelle quali rivendicava i suoi diritti di successione al trono per via di lontane parentele. La risposta alle missive arriva a nome del Delfino che, beffandosi delle rivendicazioni inglesi, invia per regalo palle da tennis ad Enrico. Quest’ultimo, adirato, decide di approntare l’esercito per la battaglia.

Atto secondo 
In una strada di Londra avviene un colloquio tra i vecchi compagni di bagordi del re: Pistola, sposo dell’ostessa Quickly, Nym, ex fidanzato di Quickly e Bardolfo. I tre compari, scansafatiche e tardoni, vengono richiamati dal paggio di Falstaff, vecchio compagno di sbronze, ormai sul letto di morte. Falstaff è stato, infatti, rinnegato dal re come compagno perché l’acquisizione del diritto regale lo ha privato della possibilità di legarsi alle vecchie compagnie. Il dolore ha colpito il vecchio, portandolo alla morte. Mentre i quattro si disperano per la dipartita, sovviene l’ordine di partenza per la guerra in Francia. Gli uomini lasciano quindi l’ostessa e si dirigono con le truppe. Poco prima della partenza, Enrico V scopre un tranello ordito contro la sua persona: il conte di Cambridge, Lord Scroop di Masham e Sir Thomas Grey, vecchi amici d’infanzia di Enrico e vendutisi alla corona francese, vengono scoperti ed arrestati dal monarca che li fa giustiziare dopo averli ripudiati. In Francia, intanto, giunge come araldo inglese il duca di Exeter, zio di Enrico V, che avverte Carlo VI dell’indignazione del monarca inglese per l’onta ricevuta in seguito al regalo goliardico del Delfino, al quale dichiara la sua disistima. Un ultimo avvertimento dell’araldo è sul destino di Francia: il re è chiamato ad abdicare in favore di Enrico, pena una guerra sanguinosa. Carlo VI si riserva una notte per pensare alla risposta.

Atto terzo
L’armata inglese parte da Southampton diretta verso le coste francesi. L’armata di Enrico si spinge fino ad Harfleur e la conquista. Aspri diverbi avvengono tra gli ufficiali francesi, i capitani Gower, Fluellen, Macmorris e Jamy, che discutono sulla conduzione dell’assedio ad Harfleur. Alla corte di Rouen, intanto, la cugina di Enrico, Caterina, prende lezioni di inglese dalla sua dama di compagnia, incappando in numerosi errori di pronuncia dai risvolti farseschi. Il re di Francia, preoccupato per la caduta di Harfleur, si prepara per la controffensiva che sarà guidata dal Delfino suo figlio, dal Connestabile e dai duchi di Orléans e di Borbone. La controffensiva viene annunciata ad Enrico dall’araldo Montjoy. I francesi, in numero nettamente superiore alle forze offensive inglesi, già pensano alla vittoria sicura sulle truppe di Enrico.

Atto quarto
I due accampamenti si fronteggiano nei pressi di Agincourt. È notte fonda e, mentre nell’accampamento francese la frenesia cresce di ora in ora, il malumore tra gli inglesi, stanchi ed in inferiorità numerica rispetto ai freschi avversari, è sempre più palpabile. Enrico, desideroso di riflettere, si aggira nell’accampamento in incognito: ha così occasione di parlare, non riconosciuto, con Pistola, suo vecchio amico, e con altri uomini dell’esercito. Questi ultimi manifestano la loro preoccupazione per le loro sorti, maledicendo il re che li manda a morire senza la possibilità di redimersi prima l’animo. Enrico, conscio della situazione, replica che il dovere di un suddito è quello di servire il suo re, il quale non è però responsabile dell’anima del suddito stesso: il peso di queste confessioni permette ad Enrico una riflessione, nella quale sottolinea, nel corso di un lungo monologo, come la posizione di un monarca sia infausta in determinate circostanze. Nonostante il titolo che lo riveste ed il peso delle decisioni che lo aggrava, Enrico si scopre infatti uomo tra gli uomini, bisognoso di aiuto e coraggio. Leva così una preghiera al cielo, affinché Dio lo assista in battaglia. Un ultimo avvertimento dell’araldo Montjoy prega Enrico di desistere dalla battaglia, ma il re non si piega e manda a rispondere che combatterà per rivendicare ciò che gli spetta. Nel frattempo Le Fer, soldato francese, si infiltra tra le file nemiche e viene scoperto da Pistola che, sotto pagamento di duecento scudi, lo lascia libero. Nella scena III c’è il monologo più celebre dell’opera, quando Enrico risponde al cugino Westmoreland, che si diceva perplesso per la disparità delle forze in campo, che non desiderava neanche un uomo in più, per non dividere la gloria di quei felici pochi che potranno dire di aver combattuto il giorno di San Crispino.
Segue una furibonda lotta tra gli eserciti, che vede a poco a poco l’esercito francese orrendamente decimato da quello inglese: i francesi, nonostante la netta superiorità numerica e la strenua resistenza, soccombono e si dichiarano sconfitti per mezzo di un messaggio dell’araldo, non prima però di aver infranto le regole di guerra uccidendo tutti i giovani ragazzi inglesi a guardia dei carri. L’araldo consegna ad Enrico la conta delle perdite: 10000 francesi, tra i quali 126 principi ed 8400 cavalieri; tra gli inglesi Edoardo duca di York, il conte di Suffolk, Sir Richard Keighley, il nobiluomo gallese Davy Gam e soli 25 soldati. Di fronte a questo prodigioso esito, Edoardo comanda di onorare e seppellire i caduti dopo aver intonato il “Te Deum” ed il “Non Nobis” ed ordina che sia messo a morte chi si vanti della vittoria senza aver riconosciuto che Dio ha combattuto con gli inglesi e che solo suo è il merito del successo.

Atto quinto
Pistola, al quale giunge la notizia della morte della moglie Quickly, si dispera in mezzo ai vittoriosi compagni. Al palazzo reale di Francia Carlo VI accoglie Enrico V, il quale avanza le proprie rivendicazioni sulla corona e la Francia intera. Il duca di Borgogna sottolinea con enfasi quanto la Francia sia caduta in basso da molti anni e di come carestie e declino abbiano condotto la madrepatria in rovina: augura poi una ritrovata pace tra le due nazioni, ed Enrico vincola la pace alla firma del trattato che sancisca il lascito della corona francese a quella inglese. Mentre Carlo VI si ritira per studiare le proposte, Enrico ha la possibilità di intrattenersi con la cugina Caterina, alla quale dichiara il suo amore. La mancata conoscenza delle reciproche lingue costringe i due a divertenti dichiarazioni piene di incomprensioni linguistiche. Alla fine Caterina si dichiara favorevole al matrimonio a patto che questo venga benedetto dal padre. Così è, ed il dramma si conclude con la dichiarazione di matrimonio tra Enrico e Caterina ed il coro che recita l’epilogo.

Enrico V
(“Henry V” – 1598 – 1599)
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