Tito Andronico – Atto III

(“Titus Andronicus” – 1589 – 1593)

Introduzione – Riassunto
Atto I
Atto II
Atto III
Atto IV
Atto V

Introduzione al teatro di Shakespeare
Elenco opere teatrali

Tito Andronico - Atto III

ATTO TERZO – SCENA PRIMA

Entrano i giudici e i senatori con i due figli di Tito legati; sfilano sul palcoscenico fino al luogo dell’esecuzione, mentre Tito li precede implorandoli.

TITO

Ascoltatemi, austeri padri! nobili tribuni, fermatevi!

Per pietà della mia età, la cui giovinezza fu spesa

in pericolose guerre, mentre voi dormivate al sicuro;

per tutto il mio sangue versato nella grande contesa di Roma,

per tutte le gelide notti in cui ho vegliato,

e per queste lacrime amare, che ora vedete

colmarmi sulle guance le vecchie rughe,

siate pietosi con i miei figli condannati,

le cui anime non sono corrotte come si pensa.

Per ventidue figli io mai ho pianto,

perché morirono nell’alto letto dell’onore;

Andronico si getta per terra e i giudici gli passano accanto.

per questi, tribuni, nella polvere io scrivo

la profonda angoscia del mio cuore e le lacrime tristi del mio animo.

Sazino le mie lacrime l’arido appetito della terra;

il dolce sangue dei miei figli la farebbe vergognare e arrossire.

O terra, ti assisterò più io con la pioggia,

Escono.

che stillerà da queste due antiche rovine,

che non il giovane aprile con tutti i suoi rovesci:

nella siccità dell’estate ti darò ancora pioggia,

e nell’inverno scioglierò la neve con lacrime calde

e manterrò sul tuo volto un’eterna primavera,

purché tu rifiuti di bere il sangue dei miei cari figli.

Entra Lucio con la spada sguainata.

O venerabili tribuni! O vecchi gentili!

Slegate i miei figli, revocate la condanna a morte,

e lasciate ch’io dica, io che non ho mai prima pianto,

che le mie lacrime sono oratori persuasivi.

LUCIO

O nobile padre, ti lamenti invano:

i tribuni non ti sentono, non c’è nessuno,

e tu racconti i tuoi dolori ad una pietra.

TITO

Ah Lucio, per i tuoi fratelli lasciami implorare:

austeri tribuni, ancora uria volta io vi supplico…

LUCIO

Mio amato signore, nessun tribuno è qui a sentirti parlare.

TITO

Non importa, ragazzo: se mi sentissero

non mi presterebbero attenzione, e se lo facessero

non avrebbero pietà di me, e tuttavia

devo implorare, anche se inutilmente.

Perciò racconto i miei dolori alle pietre,

che, se non possono rispondere alla mia pena,

pure sono in qualche modo meglio dei tribuni,

perché non interrompono la mia storia.

Quando piango, ai miei piedi esse ricevono

le mie lacrime umilmente e sembrano piangere con me;

se solo fossero abbigliate di vesti austere,

Roma non disporrebbe di tribuni a loro pari.

Una pietra è tenera come cera, i tribuni più duri delle pietre;

Una pietra è silenziosa, e non offende,

i tribuni con le loro lingue mandano uomini a morte.

Ma perché te ne stai con la tua arma sguainata?

LUCIO

Per salvare dalla morte i miei due fratelli;

e per averlo tentato, i giudici hanno pronunciato

la mia condanna all’esilio per sempre.

TITO

Oh uomo fortunato! ti hanno favorito.

Ma non ti accorgi, stupido Lucio,

che Roma non è che una selva di tigri?

Le tigri devono predare, e Roma non offre altra preda

che me e i miei. Quanto sei fortunato, dunque,

ad essere bandito da questi divoratori!

Ma chi viene qui col nostro fratello Marco?

Entra Marco con Lavinia.

MARCO

Tito, prepara i tuoi vecchi occhi al pianto,

o a schiantarsi il tuo nobile cuore:

porto alla tua vecchiaia un dolore che consuma.

TITO

Mi consumerà? Allora fammelo vedere.

MARCO

Questa era tua figlia.

TITO

Perché, Marco? Lo è.

LUCIO

Ahimè, questo spettacolo mi uccide!

TITO

Hai il cuore debole, ragazzo; alzati e guardala.

Parla, Lavinia, quale maledetta mano

ti ha fatta senza mani agli occhi di tuo padre?

Quale idiota ha aggiunto acqua al mare

o gettato una fascina sulla incendiata Troia?

Il mio dolore era al colmo prima, che tu venissi,

e ora come il Nilo disdegna ogni confine.

Datemi una spada, mozzerò anche le mie mani,

perché hanno combattuto per Roma, vanamente,

e hanno allevato questo dolore, nutrendomi, la vita.

In inutile preghiera sono state levate

e non mi sono servite ad alcun uso.

Ora il solo servizio che chiedo loro

è che una aiuti a tagliare l’altra.

È bene, Lavinia, che tu non abbia mani

perché è solo vano servire Roma con le mani.

LUCIO

Parla, gentile sorella, chi ti ha martoriata?

MARCO

Oh, quella deliziosa macchina dei suoi pensieri,

che li ciarlava con così gradevole eloquenza

è stata strappata da quella graziosa gabbia

dove come un dolce uccello melodioso cantava

dolci note modulate, incantando ogni orecchio.

LUCIO

Oh, dillo tu per lei, chi ha fatto questo?

MARCO

Oh,così l’ho trovata che vagava nel parco

cercando di nascondersi, come fa la cerva

che ha subìto una incurabile ferita.

TITO

Era la mia cara cerva, e chi l’ha ferita

mi ha fatto più male che se mi avesse ucciso.

Perché ora io sto come uno su uno scoglio,

circondato da un deserto di mare,

che guarda la crescente marea montare onda per onda

e sempre si aspetta che un maligno flutto

lo inghiotta nelle sue viscere salate.

Da questa parte, a morte sono andati i miei infelici figli;

qui, sta l’altro mio figlio, messo al bando,

e qui, mio fratello, a pianger le mie pene;

ma ciò che alla mia anima dà la più grande offesa

è la cara Lavinia, più cara dell’anima mia.

Avessi visto il tuo ritratto in questo stato,

mi avrebbe fatto impazzire: che farò adesso

che vedo così il tuo corpo vivo?

Tu non hai mani per asciugarti le lacrime,

né lingua per dirmi chi ti ha martoriata.

Tuo marito è morto, e per la sua morte

i tuoi fratelli sono condannati, e morti ormai.

Guardala, Marco! ah, figlio Lucio, guardala!

Quando ho nominato i suoi fratelli, lacrime fresche

sono apparse sulle sue guance, come la dolce rugiada

su un giglio strappato e quasi appassito.

MARCO

Forse piange perché essi hanno, ucciso suo marito;

forse perché li sa innocenti.

TITO

Se essi hanno ucciso tuo marito, allora sta’ allegra,

perché la legge ha fatto vendetta su di loro.

No, no, non avrebbero compiuto un, atto,così infame:

ne è prova il dolore che mostra la loro sorella.

Lavinia gentile, lascia che ti baci le labbra,

o mostrami con qualche segno come ti possa consolare.

Dobbiamo il tuo buon zio, e tuo fratello Lucio,

e tu, ed io, sederci intorno a una fontana,

guardando tutti in basso, a vedere come

le nostre guance sono sfigurate, prati non ancora asciutti

del melmoso limo lasciatovi da un’inondazione?

E nella fontana così a lungo terremo lo sguardo

che la limpida acqua perderà il suo fresco sapore

e diverrà, con le nostre amare lacrime, una pozza salata?

O dobbiamo mozzarci le mani, come te?

O dobbiamo tagliarci a morsi la, lingua e passare

il resto dei nostri odiosi giorni in pantomime?

Cosa dobbiamo fare? noi, che abbiamo la lingua,

tramiamo qualche piano di più grande sventura,

che di noi si stupiscano nei tempi futuri.

LUCIO

Dolce padre, non più lacrime, ché al tuo dolore

guarda come singhiozza e piange la mia infelice sorella.

MARCO

Calmati, cara nipote. Buon Tito, asciugati gli occhi.

TITO

Ah, Marco, Marco! Fratello, io so bene

che il tuo fazzoletto non può bere una sola lacrima mia,

perché tu, pover’uomo, l’hai annegato con le tue.

LUCIO

Ah, mia Lavinia, ti asciugherò le guance.

TITO

Guarda, Marco, guarda! Io capisco i suoi segni;

avesse la lingua per parlare, ora direbbe

a suo fratello quello che io ho detto, a te:

il suo fazzoletto, tutto bagnato delle sue lacrime sincere,

non è di alcun aiuto alle sue guance infelici.

Oh che comunanza di dolore è questa,

lontana dal conforto, quanto il limbo dalla felicità.

Entra Aaron il Moro, solo.

AARON

Tito Andronico, il mio signore l’Imperatore

ti manda questo messaggio: se ami i tuoi figli,

che Marco, Lucio, o tu stesso, vecchio Tito,

o chiunque di voi, si mozzi la mano

e la mandi al re; ed egli, in cambio,

ti manderà qui, vivi, entrambi i tuoi figli:

questo sarà il riscatto per la loro colpa.

TITO

O benevolo imperatore! O gentile. Aaron!

Ha mai il corvo cantato così come l’allodola

che dà dolce notizia del sorgere del sole?

Con tutto il mio cuore manderò all’imperatore la mia mano.

Buon Aaron, vuoi aiutarmi a mozzarla?

LUCIO

Fermo, padre, non sarà mandata

la tua nobile mano che ha travolto

tanti nemici; la mia servirà allo scopo.

La mia giovinezza può spendere più sengue di te,

e dunque sarà la mia a salvare la vita dei miei fratelli.

MARCO

Quale delle vostre mani non ha difeso Roma

e levato in alto l’ascia insanguinata

scrivendo distruzione sui castelli nemici?

Oh, le mani di entrambi hanno altamente meritato;

la mia è stata solo oziosa: che serva

a riscattare i miei due nipoti dalla morte

Così l’avrò conservata a un fine degno.

AARON

Su, allora, decidete di chi è la mano che deve partire;

ché quelli non abbiano a morire prima che arrivi il perdono.

MARCO

Andrà la mia mano.

LUCIO

Non andrà, perdio!

TITO

Signori, non disputate più; erbe secche come queste

sono pronte ad essere strappate; e quindi, la mia.

LUCIO

Dolce padre, se devo essere stimato tuo figlio,

lasciami riscattare i miei fratelli dalla morte.

MARCO

E in nome di nostro padre, e per amore di nostra madre,

lascia ora che ti mostri l’affetto di un fratello.

TITO

Decidete tra voi; risparmierò la mia mano.

LUCIO

Allora vado a cercare un’ascia.

MARCO

Ma io userò l’ascia.

Escono.

TITO

Vieni qui, Aaron; li ingannerò entrambi:

prestami la tua mano e io ti darò la mia.

AARON

Se questo si chiama inganno, io sarò onesto,

perché mai, finché vivo, ingannerò nessuno a questo modo.

Ma ingannerò te in altro modo,

e te ne accorgerai prima che passi mezz’ora.

Taglia la mano di Tito.

 

Rientrano Lucio e Marco.

TITO

Ora chiudete la vostra disputa: quel che era da fare è fatto.

Buon Aaron, da’ la mia mano a Sua Maestà:

digli che fu una mano, che lo difese

da mille pericoli; pregalo di seppellirla;

meritava di più; abbia questo almeno

Quanto ai miei figli, di’ che li ritengo

gioielli acquistati a piccolo prezzo;

alto, però, perché ho comprato il mio.

AARON Vado, Andronico; e per la tua mano

vedrai che fra poco riavrai con te i tuoi figli.

[A parte] Le loro teste, intendo. Oh, come m’ingrassa.

questa malvagità al solo pensarci!

Gli stupidi facciano il bene e i giusti chiedano grazia,

Aaron avrà l’anima nera come la sua faccia.

Esce.

TITO

Oh, qui io levo quest’unica mano al cielo

e piego in terra questa fragile rovina.

Se qualche potenza ha pietà di lacrime disperate,

quella io invoco. Cosa, vuoi inginocchiarti con me?

Fallo, allora, cuor mio: il cielo ascolterà le nostre preghiere,

o con i nostri sospiri appanneremo la volta celeste

e offuscheremo di nebbia il sole; come talvolta le nuvole

quando se lo stringono al loro petto liquefatto.

MARCO

O fratello, parla con verosimiglianza,

e non scoppiare in tali estremi eccessi.

TITO

Non è estremo il mio dolore, non avendo fondo?

Sia allora la mia passione anch’essa senza fondo.

MARCO

Ma pure lascia che la ragione governi il tuo lamento.

TITO

Se ci fosse ragione per queste sventure,

allora potrei mettere limiti ai miei dolori.

Quando piange il cielo, non straripa la terra?

Se, infuriano i venti, non impazzisce il mare,

minacciando la volta celeste con la faccia rigonfia?

E tu vuoi una ragione per questo scompiglio?

Io sono il mare: ascolta come soffiano i suoi sospiri;

lei è la volta piangente del cielo, io la terra:

allora deve il mio mare essere agitato dai suoi sospiri;

allora deve la mia terra, per le sue continue lacrime,

divenire diluvio, inondata e annegata;

poiché le mie viscere non possono nascondere le sue pene

ma come un ubriaco io devo vomitarle.

Dammi licenza, dunque; a chi perde va data licenza

di liberarsi lo stomaco con lingua amara.

Entra un messaggero con due teste e una mano.

MESSAGGERO

Onorabile Andronico, sei mal ripagato

per quella degna mano che hai mandato all’imperatore.

Ecco le teste dei tuoi due nobili figli,

ed ecco la tua mano, restituita per tuo scorno:

la tua angoscia, loro spasso, la tua fermezza loro derisione;

ho dolore a pensare ai tuoi dolori

più che al ricordo della morte di mio padre.

Esce.

MARCO

Ora il bollente Etna si raffreddi in Sicilia

e sia il mio cuore un inferno di fuoco eterno!

Queste sventure sono più di quanto si possa sopportare.

Piangere con chi piange conforta, un poco,

ma il dolore deriso è doppia morte.

LUCIO

Come può questa vista ferire così a fondo,

senza che l’odiosa vita se ne fugga?

Come può la morte far conservare alla vita il suo nome,

quando la vita non ha più altro interesse che il respiro?

MARCO

Ahimè, povero cuore, quel bacio non dà conforto,

è come acqua ghiacciata su un serpente intirizzito.

TITO

Quando avrà fine questo pauroso sonno?

MARCO

Addio, ora, lusinga: muori, Andronico;

tu non dormi: vedi le teste dei tuoi due figli,

la tua mano guerriera, e, qui, tua figlia macellata;

il tuo altro figlio esiliato, da questa atroce vista

fatto pallido e smorto; e tuo fratello, io,

come un’immagine di pietra, freddo e inerte.

Ah, ora non darò più freno alle tue pene.

Strappati i capelli d’argento, l’altra tua mano

mordila coi denti; e questa orribile vista

chiuda per sempre i nostri occhi sciagurati.

Ora è tempo di far tempesta; perché te ne stai immobile?

TITO

Ah! ah! ah!

MARCO

Perché ridi? non si addice a quest’ora.

TITO

Perché? non ho più una lacrima da versare.

E poi questo dolore è un nemico

che vorrebbe insediarsi nei miei occhi allagati

e farli ciechi col tributo delle lacrime:

e allora per quale via troverò la caverna della Vendetta?

Perché queste due teste sembrano parlarmi

e minacciarmi che mai troverò pace

finché tutti questi misfatti non siano ricacciati

in gola a chi li ha commessi.

Su, lasciami vedere quale compito mi aspetta.

Voi, gente afflitta, fate cerchio attorno a me,

che possa rivolgermi a ognuno di voi

e giurare all’anima mia di riparare i vostri torti.

Il voto è fatto. Vieni, fratello, prendi una testa;

e con questa mano porterò io l’altra.

E anche tu, Lavinia, avrai un incarico m questo:

porterai la mia mano, dolce fanciulla, fra i tuoi denti.

Quanto a te, ragazzo, allontanati dalla mia vista;

sei un esule e non devi fermarti qui:

corri dai Goti e raccogli un esercito, tra loro.

Se mi ami, come credo,

baciamoci e separiamoci, ché abbiamo molto da fare.

Escono.

LUCIO

Arrivederci, Andronico, nobile padre mio,

l’uomo più infelice che mai visse a Roma

Arrivederci, Roma superba, finché Lucio non torni:

egli ama i suoi pegni più della sua vita.

Arrivederci, Lavinia, nobile sorella mia:

oh, se tu fossi come sei stata finora!

Ma ora né Lucio né Lavinia vivono,

se non nell’oblìo e negli odiosi affanni.

Se Lucio vivrà, vendicherà i tuoi torti,

e il superbo Saturnino, con la sua imperatrice,

mendicherà alle porte, come Tarquinio e la sua regina.

Ora andrò dai Goti e raccoglierò un esercito

per vendicarmi di Roma e Saturnino.

Esce Lucio.

ATTO TERZO – SCENA SECONDA

Un banchetto. Entrano Andronico, Marco, Lavinia e il ragazzo.

TITO

Bene, bene; ora sedete; e badate di non mangiare

più di quanto serva a tenerci in forze

per vendicare queste nostre amare pene.

Marco, sciogli quel nodo intrecciato di dolore:

tua nipote ed io, povere creature, non abbiamo mani

e non possiamo dare sfogo alla nostra croce

a braccia incrociate. Questa mia povera mano destra

m’è rimasta per tiranneggiarmi il petto,

e quando il mio cuore, pazzo d’angoscia,

batte in questa cava prigione della mia carne,

così allora io lo soffoco col pugno.

Tu mappa di dolore che così parli per segni,

quando pulsa il tuo povero cuore con battiti furiosi,

tu non puoi colpirlo, così, per azzittirlo.

Feriscilo con i sospiri, ragazza mia, uccidilo di lamenti;

o prendi fra i denti un piccolo coltello

e fa’ un foro proprio di fronte al cuore,

che tutte le lacrime che versano i tuoi poveri occhi

scorrano in quello scolo e saturandolo

anneghino il lamentoso folle in un mare di lacrime salate.

MARCO

Vergogna, fratello! non insegnarle a questo modo

a levar mani violente sulla sua tenera vita.

TITO

Cosa? il dolore ti fa già vaneggiare?

No, Marco, nessuno dev’essere pazzo, tranne me.

Quali mani violente può levare sulla sua vita?

Ah, perché insisti sul nome “mani”?

È come se chiedessi a Enea di raccontare due volte la sua storia

come Troia fu bruciata e lui ridotto in sventura.

Non maneggiare quel tema, non parlare di mani,

a ricordarci sempre che non ne abbiamo.

Vergogna! che folle forma do al mio discorso,

come se potessimo dimenticare di non aver mani,

se Marco non nominasse la parola “mani”!

Su cominciamo. Mia gentile ragazza, mangia questo.

non c’è da bere? Ascolta quel che dice, Marco;

io so interpretare tutti i suoi segni martoriati:

dice che non beve altra bevanda che lacrime

infuse di dolore e fermentate sulle sue guance.

Lamento silenzioso, io imparerò i tuoi pensieri;

diventerò così esperto della tua mimica muta

come gli oranti eremiti delle loro sacre preghiere;

non potrai sospirare, levare i tuoi moncherini al cielo,

battere ciglio, accennare, inginocchiarti, fare un segno,

senza che io da tutto questo estragga un alfabeto

e con pratica costante impari a capirne il senso.

RAGAZZO

Nonno caro, Smetti questi amari e profondi lamenti,

rallegra mia zia con qualche storia piacevole.

MARCO

Ahimè, il tenero ragazzo, mosso a compassione,

piange a vedere la tristezza del nonno.

TITO

Sta’ buono, tenero virgulto; tu sei fatto di lacrime,

e le lacrime dissolveranno presto la tua vita.

Marco colpisce il piatto con un coltello.

A cosa dai colpi, Marco, con il tuo coltello?

MARCO

A ciò che ho ucciso, mio signore: una mosca.

TITO

Maledizione, assassino! tu uccidi il mio cuore.

I miei occhi sono sazi di spettacoli di violenza:

un atto di morte commesso sugli innocenti

non si addice al fratello di Tito. Vattene,

vedo che non sei fatto per la mia compagnia.

MARCO

Ahimè, mio signore, ho ucciso solo una mosca.

TITO

“Solo”? e se quella mosca aveva un padre e una madre?

Come stenderà le fragili ali dorate

ronzando per l’aria lamentosi fatti?

Povera mosca innocente,

che con la graziosa melodia del suo ronzìo

era venuta qui a rallegrarci, e tu l’hai uccisa.

MARCO

Perdonami, signore: era una brutta mosca nera

come il Moro dell’imperatrice, e perciò l’ho uccisa.

TITO

Oh! Oh! Oh!

Perdonami allora per averti rimproverato,

perché hai fatto un atto misericordioso.

Dammi il coltello, infierirò su di lei

illudendomi che sia il Moro

venuto qui apposta per avvelenarmi.

Questo è per te, e questo è per Tamora.

Ah, marrano!

Ma spero che non siamo caduti così in basso

da non poter uccidere, insieme, una mosca

che ci viene davanti a somiglianza d’un Moro nero come il carbone.

MARCO

Ahimè, pover’uomo! il dolore l’ha così sconvolto

che prende ombre false per sostanze vere.

TITO

Su, sparecchiate. Lavinia, accompagnami;

verrò nella tua stanza a leggere con te

tristi storie accadute in tempi passati.

Vieni con me, ragazzo: la tua vista è giovane,

leggerai tu quando la mia comincerà ad annebbiarsi.

Escono.

Tito Andronico
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