Sogno di una notte di mezza estate – Atto IV

(“A Midsummer Night’s Dream” 1593/1595)

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Atto I
Atto II
Atto III
Atto IV
Atto V

Introduzione al teatro di Shakespeare
Elenco opere teatrali

Sogno di una notte di mezza estate - Atto IV

ATTO QUARTO – SCENA PRIMA

Lisandro, Demetrio, Elena ed Ermia sono ancora addormentati. Entrano Titania, Regina delle Fate, e Rocchetto, Fior-di-Pisello, Ragnatelo, Falena, Seme-di-Senape, ed altre Fate. Oberon è dietro di loro (non visto).

TITANIA

Vieni a sederti su questo letto di fiori,

ch’io ti carezzi l’amabile guancia

e infili rose di macchia nella tua boffice testa liscia

e baci queste tue belle orecchione, o dolce mia gioia!

ROCCHETTO

Dov’è Fior-di-Pisello?

FIOR-DI-PISELLO

Son qua.

ROCCHETTO

Grattami la testa, Fior-di-Pisello. E dov’è Monsieur Ragnatelo?

RAGNATELO

Son qua.

ROCCHETTO

Monsieur Ragnatelo, buon signore, brandite la spada e ammazzatemi un pecchione dalle cosce rosse sulla cima d’un cardo. E, monsieur, portatemi qui la sua sacca di miele. Ma non vi agitate troppo, monsieur. E badate, mio buon monsieur, che la sacca del miele non si sfondi. Aborrirei vedervi inondato da una sacca di miele, signore. Dov’è Monsieur Seme-di-Senape?

SEME-DI-SENAPE

Son qua.

ROCCHETTO

Qua la zampa, Monsieur Seme-di-Senape. Per carità, buon monsieur, tenete in capo!

SEME-DI-SENAPE

Che comandate?

ROCCHETTO

Niente, buon monsieur… che diate una mano al Cavalier Ragnatelo a darmi una grattata. Bisognerà che vada dal barbiere, monsieur, perché mi par d’avere una gran quantità di peli sul viso. Ed io sono un asino delicato, al punto che, appena un pelo mi solletica, mi tocca grattarmi.

TITANIA

Dimmi, dolce amor mio, gradiresti un po’ di musica?

ROCCHETTO

Io per la musica ho un discreto orecchio! Sentiamo tintinnìo e nacchere!

TITANIA

E dimmi, diletto mio, cosa vorresti mangiare?

ROCCHETTO

Beh, mi piacerebbe una manciata di biada. E potrei masticare della buona avena secca. E mi par d’avere gran voglia d’una brancata di fieno. Non c’è nulla di meglio del buon fieno – del buon fieno profumato!

TITANIA

Ho un elfo intraprendente che andrà a frugare nella riserva

dello scoiattolo, e ti recherà noci fresche.

ROCCHETTO

Preferirei una o due manciate di lupini secchi. Ma ti prego, che nessuno della tua gente mi venga a disturbare. Sento addosso una certa esposizione al sonno.

TITANIA

Dormi pure, amor mio, ed io ti cingerò con le mie braccia.

Fate, andatevene via; via disperdetevi da ogni parte.

(Escono le Fate.)

Dolcemente così, il caprifoglio al soave convolvolo

s’allaccia. L’edera inanella così

le dita rugose dell’olmo.

Oh come t’amo! Oh come per te deliro! (S’addormentano.)

Entra il Demone.

OBERON (facendosi avanti)

Benvenuto, Robertino. Ma guarda che spettacolo!

Comincio ad aver pietà del suo delirio.

La incontrai poco fa al margine del bosco.

Cercava dolci pegni d’amore per l’odioso balordo.

L’ho rimproverata ed abbiam bisticciato;

ché avea cinte l’irsute tempie

di fiori freschi e profumati.

E le roride stille, che sovente sui bocci

si fan rotonde come perle d’oriente, stavano là

dentro agli occhi di quei bei fiorellini

come lacrime versate sulla loro vergogna.

Quando a piacer mio l’ebbi schernita,

ed ella con umili accenti mendicava pietà,

le chiesi quel suo paggetto trafugato.

Ed ella subito cedette; ed i suoi elfi a scortarlo

inviò al mio recesso, nella terra fatata.

Ora che ho ottenuto il fanciullo, risanerò

l’odiosa imperfezione dei suoi occhi.

E tu, caro Berto, togli il metamorfico scalpo

dalla testa dello zotico ateniese,

sì ch’egli possa, destandosi con gli altri,

tornarsene con loro alla città natia,

e mai più pensare ai casi di questa notte

se non come allo strano incubo d’un sogno.

Prima, però, toglierò l’incantesimo alla Regina delle Fate.

(Spreme il succo sulle ciglia di Titania.)

Torna ad essere quella che fosti.

Torna a vedere ciò che vedevi.

Il boccio di Diana sul fior di Cupìdo

Ha tale forza e divino potere.

Ora, mia cara Titania, dèstati. Su, mia dolce Regina!

TITANIA (destandosi)

Oberon, mio caro! Che strane visioni ho avuto!

Mi pareva d’essermi innamorata d’un asino.

OBERON

Eccolo là l’amore tuo.

TITANIA

Ma come poté questo accadere?

Oh come gli occhi miei aborrono il suo volto!

OBERON

Ora un po’ di silenzio. Berto, togli via quella testa.

E tu, Titania, musica invoca, e, più di quanto faccia sonno comune,

A questi cinque togli ogni coscienza.

TITANIA

Musica, orsù, e musica che, per incanto, il sonno induca!

Dolce musica.

DEMONE (togliendo a Rocchetto la testa d’asino)

Ora, quando ti desterai, torna a guardare

coi tuoi occhi di balordo!

OBERON

Musica! (Musica di danza.)

Vieni, mia Regina, danziamo

prendendoci per mano, e il suolo

culli ondeggiando i nostri addormentati.

(Oberon e Titania danzano.)

Tu ed io siamo tornati amici, e domani,

a mezzanotte, solennemente danzeremo

nella reggia del Duca Teseo, in gran trionfo,

e con l’augurio d’ogni prosperità.

Là si uniranno in nozze, insieme ad Ippolita e Teseo,

le due coppie dei fedeli amanti, con gran tripudio di tutti.

DEMONE

Re degli Elfi, presta orecchio,

Dell’allodola odo il canto.

OBERON

Ed allora, mia Regina, mesti e silenziosi,

seguiremo l’ombra della notte.

Noi che possiam cingere il mondo

più veloci della luna errante.

TITANIA

Andiamo, mio signore, e volando dirai

come avvenne che ieri notte

addormentata mi trovai

assieme a questi mortali.

Escono. I quattro amanti e Rocchetto giacciono ancora addormentati.

Al suono di corni (fuori scena) entrano Teseo, Ippolita, Egeo e il Seguito.

TESEO

Vada in cerca, uno di voi, del guardaboschi.

E poiché i riti di Maggio son compiuti

e gli avamposti del giorno ora son giunti

l’amor mio ascolterà il concento dei miei cani.

Scioglieteli là nella valle di ponente.

Eseguite l’ordine mio. E trovate il guardaboschi.

(Esce un Valletto.)

Mia bella Regina, guadagneremo la cima del monte

e ascolteremo il musical frastuono delle mute,

e l’eco che con esso si congiunge.

IPPOLITA

Ero, una volta, con Ercole e con Cadmo

in un bosco di Creta, ove i due eroi

coi segugi di Sparta cacciavano l’orso.

Mai ho udito più forti latrati,

per cui le selve e i cieli, le fonti ed ogni prossima plaga,

parean congiunti in un unico grido. Mai

ho udito più musical discordo.

Mai un toneggiar più dolce.

TESEO

I miei segugi son di razza spartana:

larghe fauci, biondo il manto, lunghe le orecchie

che lambiscon le rugiade dell’alba,

zampe ricurve e pendule giogaie

come quelle dei tori di Tessaglia.

Lenti a inseguire, ma armoniosi nel latrare,

come campane in digradanti toni. Voci meglio intonate

non risposero mai al richiamo del guardacaccia,

né dal suono del corno furono incitate,

in Creta, in Sparta, od in Tessaglia.

Giudica tu quando le udrai. Ma attenzione! Che ninfe son queste?

EGEO

Sire, è mia figlia colei che giace addormentata!

E questo è Lisandro, e questo è Demetrio.

Ed Elena è questa, Elena del vecchio Nedar.

Mi domando com’è che tutti insieme si ritrovano qui.

TESEO

Per certo si alzarono all’alba per onorare

i riti del Maggio. E avendo sentito dei nostri propositi

son venuti alle cerimonie.

Ma dimmi, Egeo. Non è questo il giorno

che Ermia dovea comunicarci la sua scelta?

EGEO

Lo è, mio signore.

TESEO

Andate, ordinate ai cacciatori di destarli coi corni.

Clamori, fuori scena; suoni di corno.

Gli amanti si destano e balzano in piedi.

Buon giorno, amici. San Valentino è ormai lontano,

e com’è che sol ora cominciano ad accoppiarsi codesti uccelli di bosco?

LISANDRO

Perdono, mio signore. (Gli amanti s’inginocchiano.)

TESEO

Alzatevi, vi prego.

Messeri, so che voi due siete rivali e nemici.

E com’è che al mondo alberga sì dolce concordia

che l’odio è tanto lungi dal sospetto

da dormire a fianco dell’odio senza tema?

LISANDRO

Sire, tra il sogno e la veglia risponderò confuso.

Giuro che finora non so com’io sia qui venuto.

Forse – il vero vorrei dirvi! –

or che ricordo, ecco dev’essere così;

qui io venni con Ermia. Intendevamo

fuggircene da Atene, eludendo la minaccia

delle leggi ateniesi…

EGEO

Basta così! Duca, non più! Ciò vi sia sufficiente!

Invoco la legge, la legge sul suo capo!

Avrebbero voluto fuggirsene via, caro Demetrio.

Questo, avrebbero voluto! Me e te defraudando.

Te di tua sposa, e me del mio consenso…

del consenso al vostro matrimonio.

DEMETRIO

Sire, Elena bella m’informò del loro intento

di fuggire insieme in questa selva.

Ed io, furibondo, qua son venuto ad inseguirli;

ed Elena – di me invaghita – venne sulle mie tracce.

Ma, mio buon signore, non so per quel magia

– ma di qualche magia certo si tratta –

il mio amore per Ermia qual neve si disciolse.

Ora nient’altro mi pare che il ricordo

d’un vano balocco dell’infanzia,

allora appassionatamente amato.

La mia fedeltà, la virtù del mio cuore,

son per Elena soltanto, oggetto e piacere dei miei occhi.

A lei, signore, prima ch’io vedessi Ermia ero promesso.

Ma, come infermo, ebbi a schifo il mio cibo,

ed ora, risanato, torno al mio gusto naturale.

Io quel cibo lo voglio, lo amo, lo bramo,

e per sempre sarò fedele ad Elena.

TESEO

Leggiadri amanti, fu buona sorte incontrarvi.

Di queste cose, fra breve, vorrò ascoltare ancora.

Egeo, del tuo volere non terrò conto;

e nel tempio, al pari di noi,

queste coppie d’amanti saran per sempre unite.

Ed essendo il mattino ormai inoltrato,

il proposito di caccia è accantonato.

Via, con noi, tutti ad Atene, tre e tre, e sarà festa solenne!

Vieni Ippolita.

Escono Teseo, Ippolita, Egeo e il loro Seguito.

DEMETRIO

Queste cose appaion tenui e indistinte

come montagne lontane che scolorano in nubi.

ERMIA

A me pare di aver guardato con gli occhi torti,

quando le cose si vedono sdoppiate.

ELENA

Anche a me.

E mi pare d’aver trovato Demetrio

come, per caso, si trova un gioiello…

mio e non mio.

DEMETRIO

Ma sei proprio sicura

che noi siam desti? Mi pare

di dormire ancora, di sognare. Credi davvero

d’aver visto il Duca, con noi qui, a dirci di seguirlo?

ERMIA

Ma sì. Ed anche mio padre.

ELENA

E Ippolita pure.

LISANDRO

E il Duca ci diceva di seguirlo al tempio.

DEMETRIO

Ma allora non c’è dubbio, siamo desti. Seguiamolo,

e strada facendo ci racconteremo i nostri sogni. Escono.

ROCCHETTO (svegliandosi)

Quando tocca a me, datemi l’imbeccata, ed io risponderò. È dove dice: “O bellissimo Piramo” (Sbadiglia.) Auuu. Ehi, Pietro Zeppa! Zufolo aggiustamantici! Beccuccio calderaio! Agonia! Perdio, se ne sono andati tutti, e m’hanno lasciato qui a dormire! Ho avuto una visione straordinaria. Ho fatto un sogno che nessun cervello umano riuscirebbe a spiegare. E c’è da far la figura del somaro soltanto a provarcisi. Mi pareva d’essere… nessuno può dire che cosa. Mi pareva d’essere… e mi pareva d’avere… ma soltanto un pazzo potrebbe tentar di dire quel che mi pareva d’avere. Occhio umano non poté mai udire, orecchio umano non poté mai vedere, mano umana non poté mai gustare, lingua umana mai concepire, e cuore umano mai narrare, un sogno come il mio. Dirò a Pietro Zeppa di scriverci sopra una ballata. S’intitolerà “Il Sogno di Rocchetto”, che ha tanto filo che non si finirà mai di sdipanare. Ed io la canterò alla fine del dramma alla presenza del Duca. Anzi, perché faccia ancora più effetto, forse la canterò alla morte di Tisbe. Esce.

ATTO QUARTO – SCENA SECONDA

Entrano Zeppa, Zufolo, Beccuccio e Agonia.

ZEPPA

Avete mandato nessuno a cercare Rocchetto? È tornato a casa?

AGONIA

Non se ne sa più niente. Non c’è dubbio. È stato portato via.

ZUFOLO

Se non viene, addio recita! Come si fa a tirarla avanti?

ZEPPA

Ah no, è impossibile. E chi lo trova un altro, in Atene, bravo a far Piramo come lui?

ZUFOLO

Eh no! Di tutti gli artigiani d’Atene è quello che ha più cervello.

ZEPPA

Già! E poi è il più bello. Ed è anche impotente con quella bella vocina!

ZUFOLO

Vorrai dire imponente… Impotente – Dio ci liberi – non vuol dire una bella cosa.

Entra Incastro falegname.

INCASTRO

Compari, il Duca esce dal tempio. E si sono sposati altri due o tre gentiluomini e gentildonne. Se avessimo rappresentato ora il nostro spettacolo ci saremmo fatti un bel gruzzolo.

ZUFOLO

Il caro, bravo Rocchetto! Così ha perso sei pence al giorno per tutta la vita. Meno di sei pence al giorno non gli avrebbero dato. Dio mi faccia finir sulla forca, se il Duca non gli avrebbe assegnato sei pence al giorno, per la parte di Piramo. L’avrebbe meritate. Sei pence al giorno per fare Piramo, o nulla!

Entra Rocchetto.

ROCCHETTO

Dove sono i nostri ragazzi? Dove sono i miei compagnoni?

ZEPPA

Rocchetto! Oh giorno coraggioso! Oh felicissima ora!

ROCCHETTO

Compari! Ho da raccontarvi meraviglie. Ma non chiedetemi quali. Perché se ve le raccontassi non sarei più un vero ateniese. Vi dirò ogni cosa per filo e per segno.

ZEPPA

Sentiamo, sentiamo, il mio caro Rocchetto.

ROCCHETTO

Non una parola di me! Tutto ciò che ho da dirvi è che il Duca ha desinato. Raccogliete le vostre robe, buoni lacci per le barbe finte, nuovi fiocchi per le scarpette, e troviamoci al palazzo; una ripassata alla parte, perché, a farla corta, la nostra recita è già nella lista. In ogni caso si badi che Tisbe si metta una camicia pulita, e chi fa la parte del Leone non si tagli le unghie. Le deve sfoderare come artigli di leone. E, miei cari attori, non mangiate né aglio né cipolle, perché il nostro fiato ha da esser gradevole. E son sicuro che li sentirò dire che la nostra è una gradevole commedia. Ma basta con le chiacchiere! Suvvia, andiamo. Escono.

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