William Shakespeare, attualità di un genio letterario

Di Giovanni Meucci

Indubbiamente le opere di Shakespeare scavano nell’interiorità e nelle passioni umane dando vita a veri e propri drammi di coscienza. I suoi personaggi sono spesso vittime inconsapevoli dei loro ruoli, della società, dell’inesorabile concatenarsi delle circostanze, fortuite o funeste che siano.

da NOTE DI PASTORALE GIOVANILE

Shakespeare genio letterario
Immagine dal Web.

Stratford on Avon ieri e oggi

Tra le regioni che si estendono tra la città universitaria di Oxford e l’industrializzata e moderna Birmingham, si trova il cuore dell’Inghilterra, lo Warwickshire, più precisamente i villaggi della zona dell’Arden a nord e le vaste distese aperte a sud del fiume Avon, conosciute come regione del Feldon. Qui s’incontra la tipica campagna inglese, le vaste brughiere, le romantiche piccole case di campagna, così presenti nella letteratura di fine Ottocento. Lungo le rive dell’Avon sorge l’antico centro abitato di Stratford, città natale di William Shakespeare. Oggi simpatica cittadina turistica, ai tempi di William appariva come un tipico borgo medievale con una struttura di stradine a griglia, con case in legno, abitate da mercanti, tra botteghe di guantai, fabbri e altri mestieri. In uno di questi cottage, in Henley Street, da John Shakespeare, ricco commerciante di pellami, e Mary Arden, nel 1564 nasce William, terzogenito di otto figli. Al nostro arrivo ci hanno accolto un vento leggero e il canto dei gabbiani. Sembrava di essere in un posto di mare. Sempre lungo l’Avon, nella zona rimasta più antica della cittadina, sorge la chiesa di Holy Trinity, dove riposa il corpo di Shakespeare. Una simpatica chiesa gotica, circondata da un bel parco verde e dal cimitero le cui tombe si allineano al corso del fiume che scorre a pochi metri di distanza. Caratteristica dell’urbanistica inglese è il saper ritagliare, all’interno delle città, luoghi dell’anima, con parchi e corsi d’acqua. Cosa che, probabilmente, spiega la nascita della letteratura fantasy proprio dalla cultura anglosassone, perché la natura è sempre presente, a portata di mano. Non è necessario percorrere tanti chilometri fuori città per incontrarla. Questo fatto permette di giocare e di sviluppare la fantasia creando mondi fantastici, dove tutto è possibile. Ne sono testimonianza opere come Alice nel paese delle meraviglie, Peter Pan, Le cronache di Narnia, Il Signore degli anelli.
Il padre, John, nel 1568 è eletto sindaco di Stratford e ciò permette a Shakespeare di frequentare, dall’età di sette anni, la “King’s New School”, liceo riservato ai figli dei consiglieri comunali. Nel 1582, costretto dal padre, sposa Anne Hathaway da cui ha una figlia, Susanna, e due gemelli, Hamnet che muore nel 1596, e Judith. In questo periodo, probabilmente, lavora come precettore presso le famiglie della piccola nobiltà cattolica del Lancashire, approfittando delle loro biblioteche per arricchire la sua cultura storica e umanistica. Nel 1592 si trasferisce a Londra dove lavora come attore e drammaturgo e, nel 1594, entra a far parte della “Compagnia del Lord Ciambellano”, il cui primo attore è James Burbage. La Compagnia è gestita in forma di cooperativa e nel 1599, demolito il primo teatro, costruisce il “Globe Theater” lungo le rive del Tamigi. Intorno al 1609, Shakespeare torna a Stratford dove muore nel 1616. A lui si deve, oltre ai due poemetti dedicati al Conte di Southampton, Venere e Adone (1593) e Lucrezia violata (1594), e ai Sonetti pubblicati probabilmente all’insaputa dell’autore nel 1609, una lunga serie di tragedie e commedie. Fra le sue opere drammatiche ricordiamo: Enrico VI, Tito Andronico, Riccardo III, La Bisbetica domata, La commedia degli errori, I due gentiluomini di Verona, Pene d’amor perdute, Sogno di una notte di mezza estate, Riccardo Romeo e Giulietta, Re Giovanni, Molto rumore per nulla, Come vi piace, La dodicesima notte, Le allegre comari di Windsor, Amleto, Troilo e Cressida, Tutto è bene quel che finisce bene, Misura per Misura, Otello, Re Lear, Macbeth, Antonio e Cleopatra, Coriolano, Timone d’Atene, Pericle, Cimbelino, Il racconto d’inverno, La Tempesta. Molte delle opere qui citate sono state trasposte cinematograficamente da registi come Kenneth Branagh, Franco Zeffirelli e Al Pacino, segno evidente della moderna attualità dei temi trattati e dei contenuti delle sue opere.

Il primo incontro con il mondo del teatro

Non abbiamo notizie certe sulla nascita della sua passione per il teatro a Stratford. Probabilmente assiste alla rappresentazione del grande ciclo dei “Mysteries” nella vicina Coventry, dove fu recitato fino al 1579, o partecipa ai trattenimenti di Kenilworth organizzati in occasione della visita della regina nel 1575. Forse, spinto dal suo spirito libero e da una forte inquietudine, avrà cercato nel mestiere dell’attore un modo per sfuggire alla monotonia del matrimonio e della società provinciale della sua cittadina natale. Della sua irrequietezza giovanile, come ha notato Max Meredith Reese in Shakespeare. Il suo mondo e la sua opera (il Mulino, Bologna 1986, p. 48), troviamo qualche traccia nelle parole che, alla fine della sua carriera, Shakespeare fa esclamare a un personaggio di Racconto d’inverno: «vorrei che non ci fosse l’età che va dai sedici ai ventitre; o che per tutto questo tempo la gioventù che è in noi dormisse sempre. Poiché in tutto quell’intervallo non si fa che impregnare ragazze, maltrattare gli anziani, rubar la roba e menar cazzotti». L’unica certezza, a questo proposito, è che nel 1592 egli era già noto nell’ambiente teatrale londinese come attore e mestierante di teatro. Lo dimostra il violento attacco mossogli dal drammaturgo R. Greene, morto il 3 settembre di quell’anno, che, in un opuscolo pubblicato postumo dall’amico Henry Chettle sotto il titolo Un soldo di spirito, definiva Shakespeare «un rozzo contadino, un corvaccio venuto dal niente, fattosi bello delle nostre pene, che, col suo cuore di tigre nascosto sotto la pelle di attore, crede di poter declamare versi sciolti meglio di tutti voi, ed essendo un assoluto “John of all works” (vuoi dire un factotum che si prendeva in ingaggio), si ritiene nella sua presunzione l’unico Scuoti-scena (Shakescene) nazionale» (cfr. G.T. di Lampedusa, Shakespeare, Mondadori, Milano 1995, p. 10). L’attacco di Greene testimonia la buona reputazione raggiunta da Shakespeare, non solo come attore ma anche come drammaturgo o, meglio, collaboratore alla stesura di copioni per il teatro pubblico che, a quell’epoca, erano messi insieme da varie persone impegnate nell’industria dello spettacolo. Gli inizi erano stati quelli di un qualunque aspirante attore del tempo, assunto dall’una o dall’altra compagnia in ruoli secondari. Ben presto, però, aveva rivelato il suo talento nel contribuire alla creazione collettiva di nuovi testi drammatici o alla rielaborazione di quelli esistenti, tanto da essere spesso il collaboratore principale alla stesura dei copioni scritti a più mani. Fino a diventare l’unico autore delle sue opere.

Dal Theatre al Globe

Un leggero ponte in acciaio e vetro sul Tamigi collega la St Paul’s Cathedral di Londra al luogo dove sorge lo Shakespeare’s Globe. Il ponte separa per così dire la zona del centro storico di Londra, con il Parlamento, la Westminster Abbey e la Trafalgar Square, dai sobborghi un tempo abitati dal popolo e dai mercanti, vicini alla Torre di Londra e al famoso Tower Bridge che presidia il porto e l’ingresso in città dal Mare del Nord, dove oggi sorge il polo finanziario della City. Nonostante la popolarità di Shakespeare, infatti, il Globe era già un lontano ricordo quando, nel 1949, l’attore e regista americano Sam Wanamaker venne a Londra a ricercarlo. Senza lasciarsi scoraggiare dal fatto che sulle sue fondamenta sorgevano una serie di case in stile georgiano, dichiarate di interesse nazionale, nel 1970 fondò il Globe Playhouse Trust e iniziò a raccogliere fondi per la costruzione di un teatro che commemorasse l’antico Globe. I lavori iniziarono nel 1987, a soli 200 m di distanza dal sito in cui sorgeva il teatro originale. Wanamaker morì quattro anni prima che il Globe venisse inaugurato, nel 1997. Ripercorriamo brevemente la storia della sua fondazione. Nel 1576 James Burbage, quattro anni dopo il riconoscimento pubblico e le licenze concesse da Elisabetta I alle compagnie teatrali (da qui il termine “teatro elisabettiano”), costruì il primo teatro pubblico, playhouse, con carattere professionale e lo chiamò Theatre, su un terreno affittato per ventuno anni, con una clausola nel contratto che gli consentiva di smantellare e rimuovere il teatro in caso di necessità. Il primo teatro elisabettiano era un’opera collettiva frutto della pratica, delle esperienze e riflessioni della compagnia di Burbage. La sua architettura traeva ispirazione dai cortili delle locande, dove gli attori collocavano il palco per le rappresentazioni, e dalle arene costruite alla periferia della città, per i combattimenti di cani con orsi. Burbage muore nel 1597, due mesi prima della scadenza del contratto d’affitto del terreno, lasciando in eredità ai figli una situazione finanziaria disastrosa. Così, per non finire del tutto rovinati, i due figli affittarono un appezzamento di terreno nei pressi del Rose, a Southwark, e ingaggiarono un costruttore perché smontasse in segreto il Theatre, e ne usasse il legname per costruire un altro teatro all’aperto, chiamato Globe. Per finanziare la nuova costruzione, cinque attori della compagnia, tra cui Shakespeare, acquistarono ciascuno una quota pari al 10% del totale. Il Globe era un edificio a forma poligonale con venti lati, costruito su strutture di legno riempite di intonaco e con un tetto di paglia o di tegole, posto sopra tre file di gallerie, dove il pubblico poteva sedere, mentre nel cortile centrale, pagando un biglietto d’ingresso più economico, assisteva in piedi allo spettacolo. Il palcoscenico era una piattaforma larga circa tredici metri e profonda otto o nove, che si proiettava nell’arena dove si trovava il pubblico (cfr. R. Cresti, La Vita della musica. Ipertesto di Storia della musica, Edizioni Feeria-Comunità di San Leolino 2008, pp. 207-212).

Shakespeare: primo autore del teatro elisabettiano?

La struttura semiaperta del Globe ricorda lo spazio scenico di un teatro greco, dove il pubblico assisteva alla rappresentazione in una posizione emotivamente più coinvolgente. I personaggi e, in particolar modo il Coro, recitavano a pochi passi dal pubblico. Similmente avviene nel teatro elisabettiano, dove gli attori recitavano in un spazio circondato su tre lati dagli spettatori. Inoltre, come avveniva per il teatro greco classico, anche nel teatro elisabettiano è la parola a suggerire la scena. Il Coro in apertura del dramma shakespeariano Enrico V fa appello all’immaginazione del pubblico affinché luoghi, temi, oggetti si materializzino nello spazio vuoto del palcoscenico. Quindi il luogo dell’azione veniva suggerito dalle battute dei personaggi come anche da semplici oggetti. Inizialmente, il testo era un canovaccio usato come semplice punto di partenza e veniva riadattato continuamente dalla compagnia teatrale a seconda della bravura degli attori che aveva a disposizione e del pubblico presente in teatro. In seguito, le opere da rappresentare non vennero più scritte a più mani, ma da un solo autore. Le storie da mettere in scena si ispiravano a fatti e a personaggi storici realmente esistiti, sia della storia inglese che del resto d’Europa. Dalla Danimarca all’Italia. Con particolare riferimento alla mentalità e allo stile di vita del tempo. A fare da sfondo ai drammi e alle commedie elisabettiane erano i quartieri della City di Londra e della vita di corte. Come era avvenuto in età medievale, il “dramma” era una rappresentazione a cui partecipavano attori e pubblico in un’esperienza collettiva. I canoni della rappresentazione dei misteri cristiani vengono rielaborati e adattati alla narrazione di storie profane. Spariscono Dio e i santi, sostituiti da re, mercanti, nobildonne, militari, compagnie teatrali itineranti, popolani. Spesso lo spazio che nel teatro greco veniva occupato dall’intervento delle divinità viene sostituito con intermezzi con fate e streghe. Sono loro a prendersi gioco e a decidere del destino dei mortali. Il nuovo dramma, comunque, affronta dinamiche umane senza un apparente richiamo alla trascendenza. Mentre il personaggio del Coro assume una funzione narrativa e di collegamento tra le scene senza un forte coinvolgimento drammatico con la storia rappresentata.
Si è spesso discusso sulla vera identità di William Shakespeare, sul fatto che un uomo di teatro, senza un particolare percorso di studi alle spalle, potesse aver scritto opere di elevato spessore drammatico e poetico, in quanto privo di conoscenze politiche, diplomatiche, scientifiche, militari, legali, letterarie, storiche. Si è fatta addirittura l’ipotesi che Shakespeare non fosse altro che un prestanome di un nobile cortigiano che non voleva esporsi in prima persona rappresentando storie sulla vita corrotta di corte o essere additato per una professione a quel tempo considerata poco raccomandabile. In realtà, come notava giustamente Giuseppe Tornasi di Lampedusa, le conoscenze culturali che emergono da questi drammi sono evidente espressione di un apprendimento disordinato e autodidattico, frutto di un cervello intuitivo come quello di Shakespeare. Di lui si sa che fu attore, e cattivo attore, se i soli ruoli rammentati sono quelli dello spettro del padre di Amleto e del vecchio servo Adamo in Come vi pare, parti poco significative. Fu un uomo di genio ma con enormi difetti. Avido di denaro, poco scrupoloso, pessimo padre di famiglia, ma dotato di straordinari poteri di assimilazione tanto che, attraverso letture disordinate e contatti personali, riuscì a formarsi una profonda cultura. Prima di giungere a Londra, dopo il mestiere di guardiano di cavalli davanti ai teatri, entrò al servizio del giovane conte di Southampton durante il suo periodo di studi all’Università di Padova. Al suo ritorno in Inghilterra, verso il 1590, il giovane William scrisse una serie di drammi italiani (I due Gentiluomini di Verona, Il mercante di Venezia, Romeo e Giulietta) tutti ambientati in Veneto e nei quali si mostrano conoscenze precise di luoghi e di persone impossibili ad acquistarsi restando in Inghilterra. Giunto a Londra si inserì velocemente nel teatro elisabettiano portandolo al suo massimo livello espressivo. Anche se quel teatro durò per pochi anni dopo la sua morte, messo al bando dall’ascesa al potere dei Puritani (1642-1644 ) , Shakespeare rimane l’unico autore rappresentativo del dramma e della commedia elisabettiani.

L’impossibilità dell’amore romantico: Romeo e Giulietta

Indubbiamente le opere di Shakespeare scavano nell’interiorità e nelle passioni umane dando vita a veri e propri drammi di coscienza. I suoi personaggi sono spesso vittime inconsapevoli dei loro ruoli, della società, dell’inesorabile concatenarsi delle circostanze, fortuite o funeste che siano. Troviamo spesso un netto contrasto tra í sentimenti autentici dei protagonisti e ciò che viene richiesto loro dall’ambiente circostante. Un dissidio che spesso sfocia in tragedia a volte per cause esterne, altre per immaturità interiore. Volendo brevemente accennare ad alcune opere, si possono evidenziare tre temi fondamentali del teatro shakespeariano: l’impossibilità di un amore “romantico”, il dissidio tra ruolo sociale e autostima, il conflitto tra individuo e società o tra padri e figli. In Romeo e Giulietta, ogni cosa si schiera contro gli amanti: le famiglie e lo Stato, l’indifferenza della natura, i capricci del tempo e il movimento regressivo dei sentimenti contrari di odio e amore. Anche se Romeo superasse la propria rabbia, anche se Mercuzio e la nutrice non fossero due litigiosi ficcanaso, le probabilità contrarie al trionfo dell’amore sarebbero troppe, come sottolinea il passo dell’addio mattutino tra Romeo e Giulietta: «Giulietta. Davvero vuoi andare? Il giorno è ancora lontano. Romeo. […] Devo andare e vivere, o restare e morire. Giulietta. È giorno, è giorno! […] / O, parti ora; si fa sempre più chiaro il giorno! Romeo. Più e più luce è nel cielo, più e più buio è dentro di noi» (Romeo e Giulietta, atto III, scena V, vv. 1-36, Mondadori, Milano 1990, tr. A. Obertello, pp. 161-163). Romeo e Giulietta è la prima vera tragedia di Shakespeare e, nonostante il suo tragico finale, rimane la più grande e persuasiva celebrazione dell’amore romantico della letteratura occidentale, che raggiunge il suo culmine nel secondo atto con l’incandescente scambio di battute tra i due innamorati: «Romeo. Madonna, io vi giuro sulla benedetta luna / che inargenta le cime di questi melograni. […] Giulietta. Non giurare affatto: / o, se vuoi, giura su te stesso, divino signore della mia idolatria / e subito ti crederò. Romeo. Sei il caro bene del mio cuore… Giulietta. No, non giurare: benché tu sia la mia gioia / io non riesco a gioire del patto di amore che ci lega stasera: / è troppo rapido, troppo improvviso, troppo violento, / troppo simile al fulmine che passa. / Questo boccio d’amore si immaturerà nel soffio dell’estate / e forse, quando ci ritroveremo, sarà uno splendido fiore. / Buonanotte, buonanotte! […]. Romeo. Vuoi lasciarmi insoddisfatto così? Giulietta. E quale soddisfazione potresti avere stasera? Romeo. Quella di udirti ricambiare il mio voto d’amore. Giulietta. E mio voto te l’ho dato prima che tu me l’abbia chiesto; / eppure vorrei avere ancora da pronunciarlo. Romeo. Vorresti rinnegarlo? E perché, amore? Giulietta. Per essere generosa e potertelo ridare. / Ma io desidero solo quello che già ho. / La mia generosità è come il mare e non ha confini, / e il mio amore è altrettanto profondo: ambedue sono infiniti / e così più do a te più ho per me» (Romeo e Giulietta, atto II, scena II, vv. 107-135: per le edizioni delle opere da cui sono tratti i brani qui e successivamente citati, cfr. H. Bloom, Shakespeare. L’invenzione dell’uomo, Rizzoli, Milano 2001). E così più do a te più ho per me: «la rivelazione della natura di Giulietta in questa scena può essere definita un’epifania nella religione dell’amore» (H. Bloom, cit., p. 61).

Tra autostima e dramma della coscienza: Otello e Amleto

Lo stesso tema dell’amore romantico si ritrova in un’altra tragedia della maturità di Shakespeare, Otello, ma se per Romeo e Giulietta rimane il dubbio sul fatto che i giovani innamorati siano o meno responsabili della loro catastrofe, in questo dramma, invece, la tragica morte di Desdemona si deve alla follia omicida di Otello, chiamato anche “il Moro”. Un atto che dimostra la drammatica debolezza interiore del Moro, che cade nella menzogna di lago, più per salvaguardare il proprio onore o, in parole più moderne, la propria autostima, che per vera gelosia nei confronti di Desdemona. Otello, infatti, dubita del sincero amore dell’amata perché si ritiene un soldato dai modi bruschi e poco raffinati ed è suquesta insicurezza che lago gioca le sue carte. Quando in realtà sono proprio le imprese del generale, le battaglie, gli assedi, le fortune e le giovanili avversità, ad aver fatto innamorare Desdemona: «Otello. Desdemona ascoltava ansiosamente il mio racconto. […] Io, allora, scelsi il momento favorevole e, abilmente, / riuscì a ottenere che mi pregasse / di farle il racconto completo della mia vita avventurosa. Naturalmente, accettai, / e molte volte la vidi piangere sulle sventure / che m’avevano colpito nella giovinezza. / Essa giurò che la mia storia era straordinaria, / “Sarebbe stato meglio” disse “che non l’avessi ascoltata mai”/ ma nello stesso tempo desiderava che Dio / l’avesse fatta nascere al posto di un uomo simile. / Mi ringraziò dicendo che se un mio amico / fosse stato innamorato di lei, / e io gli avessi insegnato a raccontarle la mia storia, / certo, essa gli avrebbe ricambiato il suo amore. / A queste parole, le aprii il mio cuore. / Essa si era innamorata di me / al racconto di tutti i miei pericoli, / e io l’amavo per la pietà che mi aveva dimostrato» (Otello, I, scena III, vv. 146-169).
Indubbiamente, il personaggio più amato e più carismatico del teatro shakespeariano è il principe dí Danimarca, Amleto. Per alcuni critici l’opera più originale della letteratura occidentale. L’opera, ha giustamente notato Harold Bloom, contiene tutto il teatro di Shakespeare: dramma storico, commedia, satira, tragedia, dramma romanzesco. Quando assistiamo a una rappresentazione di Amleto o leggiamo il testo, non ci occorre molto tempo per capire che il principe trascende il dramma. Amleto possiede qualcosa che richiede e fornisce una dimostrazione proveniente da una sfera aldilà dei nostri sensi. I desideri di Amleto, i suoi ideali e le sue ispirazioni, sono quasi fuori luogo nell’irriverente atmosfera di Elsinore. La coscienza è il suo tratto più saliente. Il principe è la figura più consapevole e perspicace concepita da Shakespeare. Amleto è un “Henry James” che è anche uno spadaccino, un filosofo destinato a diventare re, il profeta di una sensibilità ancora lontana da noi, propria di un’epoca futura. Il suo mondo è un crescente io interiore, che lui cerca di ripudiare celebrandolo, però, quasi di continuo, anche se in maniera implicita. La differenza tra lui e noi, i suoi eredi, non è di natura storica, perché anche in questo caso Amleto è molto lontano da noi, sempre un passo davanti a noi. L’incertezza è la particolarità della sua coscienza in continua crescita. Il principe non riesce a conoscere a fondo se stesso perché è un’onda di sensibilità, pensiero e sentimento che seguita ad avanzare pulsando. Amleto non ha alcun centro, è troppo intelligente, diversamente da Otello, per riconoscersi in un determinato ruolo. Meditando su questo aspetto, Harry Leving ha notato giustamente che Amleto è un dramma ossessionato dalla parola question (domanda, problema), usata ben diciassette volte, e dai dubbi sulla «fede nei fantasmi e nel codice della vendetta».
Rileggiamo il monologo centrale: «Amleto. Essere o non essere – questa è la domanda. / Se è più nobile per la mente sopportare / le sassate o le frecce dell’oltraggiosa fortuna, o prendere le armi contro un mare di guai / e combattendo finirli. Morire, dormire – / nient’altro – e con un sonno dire che poniamo / fine al male del cuore e ai mille / travagli naturali di cui la carne è erede. / Di questo groviglio mortale, è cosa / che deve farci meditare. È questo il pensiero / che dà alla sofferenza una vita così lunga. […] Chi porterebbe fardelli, grugnendo / e sudando sotto il peso della vita, se non fosse / che la paura di qualcosa dopo la morte, / la terra inesplorata dai cui confini / non torna il viaggiatore, paralizza la volontà / e ci fa sopportare i mali che abbiamo / piuttosto che fuggire verso quelli / che non conosciamo? Così la coscienza / ci rende tutti codardi, e così / la tinta naturale della risolutezza / è resa livida dalla pallida impronta / del pensiero, e imprese di grande / portata e momento mutano per questo / il loro corso e perdono il nome di azione» (Amleto, atto III, scena I, vv. 55-89, Feltrinelli, Milano 1995, tr. A. Lombardo, pp. 125-127). Il problema di Amleto, come per l’uomo contemporaneo, è sempre “Amleto”, perché Shakespeare gli ha dato la coscienza più ambigua e dilaniata che un dramma coerente possa sostenere. Amleto ha inaugurato il dramma dell’identità accresciuta che persino Pirandello e Beckett riuscirono soltanto a imitare, anche se con un tono più disperato, e che Brecht ha tentato invano di sovvertire. Forse si trova qui, come per i personaggi del teatro classico, la costante attualità di Amleto e di Shakespeare, ancora in grado di guidare e illuminare la coscienza dell’uomo.

Francesco Lamendola

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